Il metano non ci dà più una mano. Anzi, ridurre le sue emissioni del 30% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2020 – come un centinaio di paesi hanno promesso di fare nei giorni scorsi alla COP 26 – sarebbe un metodo rapido, veloce e poco costoso per contenere almeno di qualche decimo di grado l’aumento della temperatura del pianeta nei prossimi 20 anni. Sarebbe auspicabile anche per migliorare la qualità dell’aria: il metano contribuisce infatti alla formazione dell’ozono che ha effetti dannosi sulla salute, sugli ecosistemi e sulla produttività dell’agricoltura.

IL CONDIZIONALE E’ d’obbligo perché il Global Methane Pledge, lanciato da un’iniziativa Ue-Usa, è un accordo in forma di promessa a cui non solo mancano firme di peso – India, Russia e Cina, responsabili di un terzo delle emissioni globali di metano – ma non contiene nessun meccanismo vincolante, nessuna indicazione su come fare e neppure è chiaro su quali dati debba basarsi. Ecco spiegato perché, nel documento finale del G20, si faceva preciso riferimento all’istituzione dell’International Methan Emissions Observatory (Imeo) e alla necessità di migliorare la raccolta dati sulle emissioni di metano.

SI SA CHE IL METANO NON E’ FACILE da rilevare né da misurare, dunque siamo all’anno zero: sappiamo che è responsabile di quasi la metà (0,5°C) del riscaldamento globale misurato fino ad oggi (+1,1°C), che metà di quello di origine antropica rilevato in Europa si stima provenga da agricoltura/allevamenti, soprattutto da ruminanti e coltivazioni di riso (53%), un quarto dai rifiuti (26%) e un quinto (19%) dal settore petrolifero e gas. Quando si vanno a fare misurazioni più accurate, risulta che dagli impianti petroliferi e dalle infrastrutture di gas naturale (costituito in gran parte da metano) le emissioni fuggitive sono sempre maggiori di quanto stimato o di quanto dichiarato dalle aziende. Le responsabilità di oil&gas si allineano a quello di mucche e del riso, considerando che l’Ue importa l’80% del metano che consuma e quindi è in parte responsabile delle emissioni che avvengono lungo la filiera di produzione e trasporto.

NON LO DICE GRETA, LO AFFERMA il Programma ambientale delle Nazioni Unite: studi effettuati perlopiù negli Usa nel 2020 hanno messo in evidenza che le emissioni effettive erano il doppio di quanto stimato nel Golfo del Messico, idem in Canada, altrove il 60% in più (Edf, Environmental Defense Fund). Dall’inizio del 2021, la Clean Air Task Force ha intrapreso in Europa una campagna di misurazioni utilizzando apparecchiature ai raggi infrarossi in grado di individuare sorgenti di metano di minor entità rispetto a quelle rilevate dai satelliti: i primi risultati, divulgati ieri durante un webinar da Glasgow organizzato dalla fondazione Heinrich Böll, mettono in evidenza che, su 250 siti visitati in 11 paesi europei (Italia compresa) da febbraio a settembre scorso, nel 60% sono state rilevate emissioni di metano nei pressi di serbati di stoccaggio, compressori di gas, valvole, pozzi, terminali per il Gnl (Gas naturale liquefatto), rigassificatori, ecc.

«NON PENSAVAMO CHE LA SITUAZIONE fosse così seria in Europa – ha dichiarato James Turitto, uno degli operatori che ha effettuato le rilevazioni per conto di Clean Air Task Force – è vero che il metano, di per sé non è tossico, però nella maggior parte dei casi non fuoriesce allo stato puro ma si lega ad altre molecole e può diventare pericoloso per la salute. Molte fonti di emissioni le abbiamo trovate nelle città, anche vicino a luoghi di aggregazione delle persone». La maggior parte degli operatori degli impianti si sono dichiarati inconsapevoli delle fuoriuscite di metano e nessuno di loro aveva mai dichiarato le emissioni. «Il problema è particolarmente serio in Italia, che è il paese più metanizzato d’Europa, dove gran parte degli impianti sono in Pianura Padana – ha detto Nicola Armaroli, dirigente ricercatore del Cnr – una delle zone più inquinate d’Europa. Ho provato più volte a sollevare l’attenzione su questo tema, ma non sono stato ascoltato».

IL METANO – LA MOLECOLA PIU’ LEGGERA tra gli idrocarburi – è inodore e incolore e non è facile da contenere nelle migliaia di km di metanodotti, condutture e nelle infrastrutture dedicate per la sua distribuzione. Siccome ne abbiamo ancora bisogno nella transizione, in pochi finora si sono occupati delle falle del sistema. «Il ministro Cingolani continua a ripeterci che non possiamo rinunciare al metano domani, e questo è vero solo in parte – ci dice Mariagrazia Midulla, responsabile delle politiche energetiche del Wwf – però sono 30 anni che usiamo il metano come idrocarburo «ponte», è ora di diminuire progressivamente il ricorso al metano e di favorire la penetrazione delle fonti rinnovabili».

PER IL MENO SPORCO DEI FOSSILI – ma sempre di un gas fossile si tratta e con un potenziale di riscaldamento globale 80 volte maggiore della CO2 in un arco temporale di 20 anni – non esiste in Europa una policy specifica che contenga misure per ridurne le emissioni. Se ne sta discutendo in questi ultimi mesi a Bruxelles all’interno della Methane Strategy, uno delle tante gambe del Green Deal, che dovrebbe portare ad una proposta legislativa entro la fine di quest’anno. Secondo un report del Parlamento Europeo sull’attuazione della strategia occorre partire dalle misure più ovvie: un sistema obbligatorio di rilevazione e riparazione delle fuoriuscite di metano dagli impianti, compresi quelli per biometano e biogas; il divieto di venting (il rilascio diretto in atmosfera di gas metano durante le estrazioni di greggio) e di flaring (combustione di gas in eccesso rilasciato dalle torri petrolifere, invece del recupero del gas a scopi energetici). Inoltre sono da individuare e sigillare i pozzi petroliferi e siti minerari fuori produzione che continuano ad emettere metano. Ma non basterà limitarsi alla caccia alle emissioni fuggitive per centrare l’obiettivo di riduzione del 30%, servirà una revisione delle direttiva sulle emissioni dell’industria e delle energie rinnovabili, oltre che supportare la produzione di biogas da fonti sostenibili.

PER QUANTO RIGUARDA LE EMISSIONI di metano dal settore agricolo, dal 1990 al 2018 nei paesi europei sono diminuite del 21% grazie sia alla riduzione del 22% della fermentazione enterica (il processo digestivo dei ruminanti) sia grazie alla migliore gestione del letame (17%). Tuttavia, negli ultimi 5 anni, a causa dell’aumento del bestiame, le emissioni sono di nuovo in aumento. Malgrado si possano ottenere sensibili miglioramenti cambiando l’alimentazione dei bovini, quello che si può fare per il clima è modificare le diete in modo da privilegiare gli alimenti a base vegetale e diminuire l’assunzione di carni rosse. Sempre in agricoltura si dovrà agire anche sul fronte degli scarti e dei residui colturali per la produzione di biogas per alimentare un sistema di economia circolare.