Anche in Italia si è andata affermando la tradizione anglosassone del libro-testamento, il lascito narrativo del politico più in voga o, semplicemente, più mediatizzato. Non poteva mancare all’appello Giuseppe Sala, trionfatore dell’Expo e sindaco della città più influente del paese. Un libro su Milano e il secolo delle città poteva costituire comunque un’occasione per ragionare sul futuro delle città globali. Purtroppo gran parte del libro risente della necessità, per Sala, di accreditare il proprio lavoro, di presentarsi come punta avanzata di un modello manageriale che attraversa contraddizioni sociali e schieramenti politici. Se mai vedrà la luce un partito della nazione, Sala ne sarà uno dei simboli viventi. Secondo il sindaco di Milano, il XXI secolo sarà «il secolo delle città». Questa tensione, presente nel dibattito politico e sociologico da almeno un secolo, viene presentata come intuizione per il futuro. Il mondo, però, non vedrà solo la collaborazione tra metropoli, ma soprattutto una loro sempre più acerrima competizione. O il paese – ogni paese – favorisce questa naturale competizione, mettendo a disposizione strumenti finanziari e politici adeguati, o le città globali saranno costrette a far da sé. Sala chiarisce subito gli strumenti politici: «come si fa a non provare un po’ di invidia per il sistema francese che permette di eleggere un presidente come Macron, che raccoglie solo il 24 per cento dei consensi al primo turno e che ha una stragrande maggioranza all’Assemblea nazionale?». Le metropoli devono essere governabili, in primo luogo. Ma la governabilità è lo strumento attraverso cui attrarre investimenti privati, turismo di massa, city users, manager, lavoratori. L’obiettivo finanziario emerge da un suo ricordo personale di Umberto Veronesi: «un organizzatore straordinario e un maestro nel ricondurre il pubblico ai bisogni del privato». Prende forma così il modello della metropoli globale che Milano aspira ad essere: una città svincolata da lacci e lacciuoli che la legano al proprio contesto statuale, libera di indirizzare le risorse pubbliche cittadine al fine di attrarre i flussi, economici e umani, del mercato globale: «finora si muovevano solo i capitali. Oggi, grazie alla Brexit, si muovono anche i big della finanza, del risparmio gestito all’investment banking». Scopriamo così non solo l’esistenza di una qualche differenza tra «capitali» e «big della finanza», ma soprattutto che il primo problema di Milano è predisporsi all’accoglienza di questi. Poco importa che Amundi, citata come esempio virtuoso per l’ingresso di 300 nuovi lavoratori, sia la stessa banca che ha rilevato il risparmio gestito di Unicredit, sottraendo di fatto un asset strategico per l’economia del paese. L’importante è la crescita del Pil milanese. L’intendenza seguirà: «l’assetto di Milano nel suo rapporto con Roma non basta ad assicurare quegli esiti che l’attuale forza della città dovrebbe garantirle». Roma, intesa come governo ma, sottilmente, anche come città (e, per sineddoche, come Paese), deve adeguarsi a questa leadership. Niente di nuovo, intendiamoci. Niente che non rafforzi quella città duale che aspira alla dimensione globale dimenticando per strada ragioni e necessità dei suoi cittadini, soprattutto delle periferie. La lotta per l’Ema, in questo senso, più che un evento, si propone come modello per il futuro.