Pompei 2013, la stagione dell’ossimoro: annus horribilis per il pessimo stato di salute, annus mirabilis per il successo internazionale. Da una parte l’alzata di voce dell’Unesco, che intima all’Italia di prendere provvedimenti per la sua tutela, dall’altra la mostra sold out in corso al British Museum, fino al prossimo 29 settembre: Life and death in Pompeii and Herculaneum. Eva Cantarella, docente di Diritto greco all’Università di Milano, e Luciana Jacobelli, archeologa, ne riprendono puntualmente il racconto, a partire dall’attenzione alla quotidianità sottesa dall’evento londinese, tra le pagine di Pompei è viva (Feltrinelli, pp. 224, euro 16,00). Il libro compendia la trama tessuta sul sito dalle due studiose in una precedente trilogia saggistica, riconsegnandola a quelle coordinate storiche che sole ne definiscono la realtà. Il compito è assolto con chiarezza perché, se non è onesto trasformare l’età antica in uno spettacolo aproblematico, non è tuttavia necessario tradurre la complessità in termini astrusi. Accompagnata da un esaustivo apparato iconografico e seguita da schede sui monumenti e consigli bibliografici ordinati per argomento, l’esposizione del libro si sviluppa intorno a tre nuclei tematici: la società, la città – dai modi di abitarla, al traffico –, le storie che le hanno dato vita.
Pompei è la Grande Bellezza della storia: la sua consacrazione estetica nacque, insieme al concetto stesso di turismo, con il Grand Tour dei rampolli inglesi e francesi, alla fine del XVIII secolo. Il suo fascino è stato alimentato dall’impeto dei miti, sempre efficaci anche quando scientificamente scorretti grazie al pennello dei vari Alma-Tadema e Brjullov e alla penna di Mark Twain e Théophile Gautier, Edward Bulwer-Lytton e Goethe. Un’immaginazione tanto connaturata al luogo da ispirare perfino la scienza, con la straordinaria intuizione di Giuseppe Fiorelli, l’ideatore del metodo dei calchi in gesso. Fa quindi ancora più male, leggendo l’introduzione, ricordare i goffi tentativi di modernizzare la gestione del sito, senza convinzione né creatività (già a partire dalla legge n. 352 del 1997, con la quale si concesse alla Soprintendenza autonomia amministrativa e finanziaria). Fu il fallimento del nuovo orientamento manageriale, in difficoltà pure con la manutenzione ordinaria, a portare al commissariamento della Protezione Civile, tra il 2008 e il 2010: anni funestati dal crollo della Schola Armaturarum e dal rifacimento irriguardoso dei gradoni del Teatro Grande. Sebbene dal 1997 il sito sia patrimonio dell’umanità, esso appartiene pur sempre allo stato italiano, che ha ora tempo fino al 31 dicembre per adottare misure idonee alla sua salvaguardia, evitando provvedimenti estremi dell’Unesco.

Il saggio, che avverte l’esigenza di attualizzare la società pompeiana, dedica l’apertura alla condizione femminile, giovandosi delle competenze di Eva Cantarella, attenta alla questione anche nella sua produzione di manualistica scolastica. Scopriamo così che Mamia, sacerdotessa di origine sannita, e Eumachia, figlia di un produttore di vino, furono tra i personaggi più in vista della città; mentre Asellina, venditrice di bevande calde lungo il corso principale, poteva addirittura permettersi di suggerire agli avventori per chi votare, come rivela un manifesto elettorale dipinto sui muri della sua taverna. Probabilmente, però, nemmeno donne come loro erano immuni dalla prepotenza maschile: già nel II secolo a.C., infatti, un editto affrontava legalmente lo stalking, punendo oltre all’appellatio, che consisteva nel rivolgere alla vittima parole di cattivo gusto, la adsectatio, reato commesso da chi la seguiva per strada, in silenzio ma con insistenza.

Anche la politica dell’epoca anticipava quella attuale, con l’invasività delle lobbies e i soliti trucchi psicologici. Lavandai, mercanti di frutta e spettatori dell’anfiteatro appoggiavano con veemenza i propri candidati; questi, a loro volta, per dare la sensazione di riconoscere ciascun cittadino, uscivano a passeggio accompagnati da un apposito schiavo: il nomenclator, addetto a suggerire sottovoce i nomi dei passanti. Un affresco rinvenuto nella Casa del Centenario raffigura il dio Bacco ricoperto da un grappolo d’uva. Un Vesuvio benigno si innalza alla sua destra; ha ancora una sola cima. Da esso prendeva nome il Vesuvinum, vino di qualità eccellente. E il vino doveva piacere non poco ai pompeiani, se su un graffito si legge: Avete, utres sumus: salute, noi beviamo come otri!

Simili istantanee proposte dal libro invitano a riflettere, nella loro semplice efficacia, sulla portata universale dei valori veicolati dall’idea di Pompei. Il caso che spazza via la Dolce Vita di un secolo à la fin de la décadence e, quando non te l’aspetti, lo resuscita cristallizzando anche i profili di persone comuni che vissero ai margini della società. E poi la precarietà dell’esistere, la falsità di quelle «magnifiche sorti e progressive» prese di mira da un Leopardi spronato proprio dalla vista del Vesuvio. Oppure la visionarietà dei Pink Floyd, intenti nell’ottobre del 1971 a registrare un intenso Live at Pompeii.
Pompei, però, ha ormai bisogno di tutto fuorché di astrazione: serve ripensarla con meno emotività e più intelletto, più nel bianco e nero delle foto di Mimmo Jodice, che nelle note colorate di Roger Waters e David Gilmour. È necessario raccontarla per recuperare un senso, logico e razionale, alla nostra capacità di reinterpretare il passato: la prima risorsa a cui attingere per restaurare un rapporto progettuale con il futuro. Tra le tante strade utili per raggiungere lo scopo, l’ultima sezione del libro suggerisce come via maestra e più interessante fra le altre quella che racconta, appunto, «le Storie».

Le migliori riguardano ancora le donne: come la matrona che, secondo le guide turistiche, la notte dell’eruzione raggiunse la caserma dei gladiatori per incontrare il suo amato e morire con lui. Nulla vieta di credere a questa romantica ricostruzione. L’urgenza didattica, tuttavia, sta nel concentrarsi, in una sorta di Spoon River archeologico, sui fondamenti storici della leggenda.
Infine, le vicende curiose di due sopravvissuti. Titus Clemens, tribuno di Vespasiano a Pompei che nell’80 d.C. incontriamo turista a Tebe d’Egitto, dove incise la sua firma su un piede del colosso di Memnone. E l’amica per cui Plinio il Vecchio, partito con navi da guerra per soccorrerla, morì senza portare a termine l’impresa. Un’epigrafe scoperta nel 1854 a Morrone del Sannio, presso Campobasso, rivela però che Rectina, senza le virili triremi del celebre scrittore, contando probabilmente solo sui suoi mezzi, riuscì a salvarsi.