Marta è un medico, una dentista, lavora all’ospedale centrale di Maputo. La incontro sull’aereo Maputo-Johannesburg. È mozambicana, si sta recando a Johannesburg per un seminario tra medici. Le chiedo del suo lavoro e del suo paese. Mi sembra molto scoraggiata: disuguaglianze profonde e crescenti, corruzione. Parla a bassa voce, mi dice che ha un figlio e ha bisogno di lavorare, come se temesse che qualcuno potesse sentirla e per questo potesse mettere in pericolo il suo posto di lavoro. Il marito è un avvocato che lavora nella compagnia elettrica nazionale. Il duro lavoro di tutti i giorni, la difficoltà di conciliare la famiglia con il lavoro, il salario basso, molto basso, 150-200 euro al mese. È orgogliosa del suo paese anche se sfiduciata del partito di governo, il Frelimo; mi fa capire sempre sottovoce che non lo ha votato alle ultime elezioni presidenziali.

Il tema di cui mi sto occupando è quello dello sviluppo dell’agricoltura, dei possibili scambi di ricerche ed esperienze tra l’Europa e i paesi africani sub sahariani. Come spesso viene denunciato da studiosi indipendenti europei, americani e non solo (Lester Brown, Vandana Shiva, Jan van der Ploeg), il modello di sviluppo dell’agricoltura dominante nel mondo occidentale, sta manifestando tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni.

Una crisi che investe i produttori agricoli, soprattutto piccoli e si ripercuote sui consumatori, sulla qualità del loro cibo, sulla sostenibilità economica degli stessi.

Un modello basato sulla progressiva concentrazione del controllo dei processi di produzione e distribuzione, sul massiccio orientamento dei consumi attraverso ingannevoli e interessate attività di marketing.

Possibili scambi di esperienze

L’Unione Europea con numerosi programmi di aiuto alle attività di ricerca e sperimentazione nei più vari settori prevede la possibilità di partecipazione anche di moltissimi paesi non membri purché siano coinvolti università, enti di ricerca e/o imprese di paesi Ue. I progetti finanziati dalla Ue offrono l’opportunità di scambiare esperienze di ricerca europea con i paesi in via di sviluppo, coinvolgendo i contadini e le loro associazioni, università, governi locali e nazionali.

Occasioni e possibilità di ricerca e di confronto per una diversa agricoltura, sostenibile, che in un’economia della produzione e degli scambi globalizzata può trovare efficaci percorsi innovativi di ricerca e sperimentazione solo se applicati globalmente.
In uno di questi progetti ho coinvolto il Trust Graça Machel. Ho appuntamento con Graça Machel, la vedova di Mandela, alle 9,30 nella sede del Trust a Johannesburg.

All’aeroporto di Maputo alle 6,00 prendo un caffè al bar, pago. Quasi casualmente, altre volte non vi avevo fatto caso, vedo che su tutte le carte moneta è raffigurato Samora Machel, marito di Graça che ne conserva il cognome a dal quale ha avuto due figli. Morì in un “incidente” aereo nel 1986 quando era presidente del Mozambico dopo averne guidato la guerra di liberazione contro il Portogallo e portato all’indipendenza nel 1975.

Già il precedente leader della resistenza e fondatore del Frelimo, Eduardo Mondlane, al quale è intitolata la più importante università del Mozambico, era stato vittima di un attentato nel 1969 a Dar es Salaam.

Ho la precisa sensazione, già nettamente percepita in precedenti permanenze a Maputo, che quel che rimane di quelle esperienze esaltanti e tragiche e delle idee di Samora Machel è solo la sua immagine sulle monete di carta di tutte le taglie.

La vedova di Machel e Mandela

Puntuale Graça Machel mi accoglie per un incontro di circa 40 minuti. È molto interessata al progetto che le sottopongo. Prende appunti, parla dell’agricoltura, dei piccoli contadini, del loro ruolo e di quello particolare delle donne. Parla, tra l’altro, dei gravi problemi sanitari nei paese africani: tra questi la malaria e le malattie cardiocircolatorie che provocano molte morti. Sono i due temi sui quali si può sviluppare qualche progetto insieme a università mediche europee.

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Graça Machel

La figura della Machel è leggendaria: da combattente per la liberazione del Mozambico, a moglie del primo presidente, a ministro dell’istruzione e della cultura nei primi governi dopo l’indipendenza, impegnata fortemente per la scolarizzazione e l’alfabetizzazione del paese. Il suo ruolo durante i lunghi dieci anni di guerra civile scatenata dai governi del razzismo e dell’apartheid del Sudafrica e della Rodesia, con l’appoggio degli Usa. Una figura prestigiosa di riferimento nel continente africano e in tanti paesi del mondo. Gli anni a fianco di Nelson Mandela, fino a diventarne la moglie negli ultimi quindici anni della sua vita.

Dopo l’incontro, chiedo di visitare il Centre of Memory dedicato a Nelson Mandela. L’autista della macchina che mi accompagna dice che può aspettare durante la mia visita: se voglio, dopo, posso visitare anche Mandela Square prima di ripartire. Il Nelson Mandel Centre è un bell’edifico immerso in un parco. Elegante struttura in legno, acciaio e mattoncini alla periferia di Johannesburg è stato costruito nei pressi della casa dove Mandela ha vissuto gli ultimi anni. Ampi spazi dedicati alla figura di Mandela, alla sua storia, alla sua vita privata e pubblica fortemente intrecciate tra loro.

Libri, manoscritti, cimeli, fotografie, molti video. All’ingresso una parete con decine di tavolette in marmo con incisi i nomi di coloro che hanno contribuito con il loro «generoso supporto» alla realizzazione del centro. Tra gli altri: Bill Clinton, David Rockfeller e la figlia Peggy Dulany, Vodacom, Coca Cola, Google, Volkswagen, Ambasciata degli Stati Uniti. Proprio così.

La memoria sbiadita di Madiba

Ci sono tante immagini e filmati della guerra civile in Mozambico, che evidentemente è strettamente interconnessa alla storia e alla vita di Mandela. Molti pannelli spiegano i vari momenti di quei tragici anni, le tante distruzioni e il milione di morti, nella stragrande maggioranza tra la popolazione civile. Mi rendo conto che sono l’unico visitatore e rimarrò tale per tutta la durata della mia visita di circa un’ora. Al termine, incuriosito, mi lascio condurre al Mandela Square, aspettandomi di vedere una piazza, una bella piazza dedicata a Mandela.

In realtà si tratta di un enorme centro commerciale in stile occidentale, imponente a più piani, con parcheggi. Centinaia di negozi di ogni tipo. Nei pressi di una delle entrate, relegata e appartata in un angolo vi è una statua in bronzo di Mandela. Tutto qua.

Vado via con una certa amarezza e la sensazione che anche di Nelson Mandela, dei suoi ideali, delle sue lotte contro il razzismo e per la libertà, dei suoi 27 anni di carcere, del suo essere riferimento in tanti luoghi del continente africano e del mondo intero come simbolo di riscatto, non rimane che una sempre più sbiadita memoria. Realtà e simboli che aveva strenuamente combattuto riprendono il loro posto nel cuore dell’Africa.