Si deciderà molto del futuro della rivoluzione bolivariana con le elezioni di domenica prossima in Venezuela per il rinnovo dei governatori dei 23 Stati del Paese. Una partita dall’esito assai incerto, in cui si prevede con una certa sicurezza solo che l’astensione sarà alta. Un appuntamento, quello elettorale, che ha di fatto congelato il dialogo tra governo e opposizione iniziato nella Repubblica Dominicana e subito interrotto dalla destra, non essendo conveniente per quest’ultima, nell’imminenza delle elezioni, sedersi a trattare con un governo che aveva promesso di rovesciare con le buone o con le cattive.

Una destra che, peraltro, giunge all’appuntamento del 15 ottobre con profonde divisioni interne, tra il settore che ha sposato la via elettorale, quello radicale con chiare e permanenti aspirazioni golpiste – il quale, in caso di sconfitta, è pronto a tornare alla via della destabilizzazione terrorista, mirando magari alla costituzione di un governo parallelo – e il settore disposto a combinare le due forme di lotta. E di certo colpisce che, tra i più ostili al dialogo con il governo, insieme al gruppo radicale noto come Resistencia e alla formazione di María Corina Machado (Vente Venezuela), vi sia – in stridente contrasto con gli appelli del papa – la Conferenza episcopale, la quale, per bocca del cardinale Urosa Savino, ha sottolineato l’assenza di garanzie e di condizioni per il dialogo, aggiungendo che «le elezioni dei governatori sono importanti per iniziare un cambio di governo nel Paese», per cui «non è ora il momento di dibattere se il dialogo debba esserci o meno».

 

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Il governatore di Miranda, Carlos Ocariz, esponente dell’opposizione, ieri ha chiuso la sua campagna elettorale in uno slum di Caracas (Efe)

 

Dall’altro lato della barricata, se il governo Maduro sembra aver operato una decisiva svolta nella lotta alla corruzione (una questione rimasta finora un cavallo di battaglia della destra), con indagini e arresti nel settore petrolifero, nel sistema delle importazioni e in ambito sanitario, rischia tuttavia di pagare caro il persistere dei problemi che affliggono ormai da troppo tempo la popolazione venezuelana: la scarsità dei beni e l’inflazione, a cui si è aggiunto nelle ultime settimane un ulteriore aumento dei prezzi. Tanto più che poco si sa sui primi due mesi di lavoro dell’Assemblea Nazionale Costituente, finora poco incisiva rispetto alla situazione economica.

[do action=”quote” autore=”Luis Britto García”]«Molti si domanderanno cosa ci faccia un gruppo di imprenditori in una Costituente socialista. Risposta: promuovere una legge di promozione e di protezione degli investimenti al posto di una legge di promozione e di protezione dei cittadini contro gli investimenti»[/do]

Si è tuttavia fatto sentire il presidente Nicolás Maduro, presentando all’Assemblea otto leggi destinate, a suo giudizio, ad affrontare la «guerra economica» e a rispondere alle sanzioni imposte dagli Stati Uniti: la legge del Plan 50, per fissare i prezzi massimi di vendita al pubblico di 50 prodotti e servizi fondamentali; la legge dei Clap, per dare carattere costituzionale ai Consigli locali di rifornimento e produzione sorti a partire dal popolo in risposta alla distribuzione privata di alimenti; la legge che autorizza l’apertura di case di cambio in tutto il territorio nazionale; due leggi destinate rispettivamente a colpire i grandi patrimoni nati con la crisi economica e a perseguire i crimini commessi in campo economico contro il popolo; la legge per la creazione del Consorzio Agroalimentare del Sud, chiamato a coordinare a livello nazionale tutti gli sforzi produttivi dei 20 principali settori del Paese.

E, infine, due leggi che non vanno precisamente in direzione del superamento di quel modello estrattivista contro cui combattono dissidenti di sinistra, indigeni e ambientalisti: la legge di promozione e di protezione dell’investimento straniero in Venezuela, diretta a migliorare le condizioni per le imprese straniere che decidono di investire nel Paese e la legge per la creazione di un nuovo regime per gli investitori e di un nuovo regime tributario per lo sviluppo sovrano dell’Arco Minero dell’Orinoco, al fine di incamerare attraverso l’attività mineraria un terzo delle valute straniere prima provenienti dalle esportazioni di petrolio.

Ha commentato non a caso lo storico e scrittore venezuelano Luis Britto García: «Molti si domanderanno cosa ci faccia un gruppo di imprenditori in una Costituente socialista. Risposta: promuovere una legge di promozione e di protezione degli investimenti al posto di una legge di promozione e di protezione dei cittadini contro gli investimenti».

 

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Orinoco Petroleum Belt nella stato di Monagas (Xinhua)

 

E ancor meno rassicurante è la legge per lo sviluppo dell’Arco Minero dell’Orinoco, una superficie di 120mila kmq, corrispondente a circa un terzo dell’Italia, in cui, oltre al petrolio, sono state scoperte ingenti quantità di oro, coltan, diamanti, ferro, bauxite e altri minerali. È qui che nel 2016 il governo Maduro ha dato vita a una Zona di Sviluppo Strategico Nazionale mettendo a punto un ampio programma di facilitazioni per gli investitori esteri – ma tralasciando di consultare i popoli indigeni che abitano la regione – e dando così il via alla devastazione di una zona coperta da foreste tropicali e savane a caratterizzata da una straordinaria biodiversità. Distruzione che, di certo, non verrà arrestata con la nuova legge presentata da Maduro all’Assemblea Costituente, con tanti saluti per quella parte della società venezuelana che si ribella alla deriva estrattivista e chiede che venga rilanciato un progetto autenticamente ecosocialista.