Continua nella Vandea leghista veneta il lavoro di Don Luca Favarin, nemesi religiosa progressista del sindaco di Padova Bitonci, ospite di tanti talk-show e intervistato pure dalla Cnn. Il sacerdote 43enne ormai gestisce 9 centri per rifugiati, in maggior parte africani, a Padova e dintorni, oltre a un caffè dove lavorano anche alcuni dei suoi protetti. Ma nuovi progetti si stanno aggiungendo, tra cui l’apertura di un ristorante e di un campus di Studi sull’Immigrazione, dove chi vuole operare nel settore potrà ottenere un Master. Ma c’è ora un’imminente novità “politica” in arrivo dall’officina di questo Don Gallo veneto, la onlus Percorso Vita: una richiesta ufficiale al Ministero degli Interni che, qualora esaudita, potrebbe “bypassare” il processo delle commissioni che decidono sul futuro dei rifugiati. Notare che, specificatamente, la commissione presente in Veneto ha il record di verdetti negativi nei confronti dei richiedenti asilo.

 

don luca favarin
Don Luca Favarin

 

 

Don Luca racconta in anteprima al manifesto questa nuova iniziativa, «una proposta politica molto chiara, la prima in Italia, in cui si chiede al ministero che possa essere sospesa la domanda originaria di asilo politico per il migrante che durante il tempo dell’accoglienza nelle strutture, nell’arco di un anno, un anno e mezzo (il tempo di attesa del responso della commissione), sia riuscito minimamente a integrarsi, abbia imparato la nostra lingua, e possegga un regolare e prolungato contratto di lavoro. Chiediamo – aggiunge Favarin – che tali elementi, presenti contemporaneamente e verificati da opportune autorità, permettano di ottenere un permesso di soggiorno per motivi lavorativi. Sarebbe triste avere persone perfettamente integrate e contemporaneamente clandestine. Questo è il rischio attuale.

Non bisognerebbe passare prima dal Parlamento?

Non necessariamente. Basterebbe una semplice direttiva ministeriale.

Come vi è venuta in mente questa proposta?

Dalla pura esperienza sul campo: ci troviamo di fronte a non pochi rifugiati da noi accolti che, pur essendosi integrati sia grazie alla conoscenza della lingua che al conseguimento di un contratto di lavoro, rischiano addirittura l’espulsione.

E quale sarebbe il passo successivo nel caso in cui questa vostra richiesta venisse rigettata?

Probabilmente ci lanceremmo in una campagna a livello nazionale, ma anche europeo, perché pensiamo sia paradossale avere un’Europa che nel corso del tempo si è fatta paladina dei diritti e delle grandi conquiste valoriali, ma finisca poi per ignorare e calpestare certe fondamentali istanze umane.

In cantiere avete anche il progetto del campus di Studi dell’Immigrazione.

L’idea è di coniugare l’esperienza dell’accoglienza con una progettualità corretta e professionale, in modo che la nostra esperienza faccia scuola. Prevediamo di avere sullo stesso campus una struttura didattica accanto a un centro di accoglienza operativo, in modo che gli studenti possano non solo applicarsi dal punto di vista teorico, ma anche fruire di una pratica sul campo. Credo che questa iniziativa possa rivelarsi molto utile per quei giovani alla ricerca di lavoro e che al tempo stesso posseggono una coscienza sociale e umanitaria. Tutto questo in un settore che ha bisogno di sempre più operatori non solo motivati, ma anche preparati come si deve.

Nel frattempo Salvini appoggia il candidato repubblicano Trump che addirittura invoca la chiusura delle frontiere americane a tutti i musulmani.

Quello che molti non capiscono è che dove c’è disprezzo, ghettizzazione e non integrazione si finisce per creare una fucina di fondamentalismi. Anche quando sembra che non possa esserci una perfetta integrazione, dovrebbe esserci almeno una convivenza pacifica, basata sul rispetto reciproco. La prova del diavolo è l’accettazione del diverso. Non possiamo pretendere di combattere il terrorismo con arroganza e prepotenza. Quest’attitudine finisce per divenire un vero e proprio boomerang. L’unica soluzione è applicare politiche intelligenti di contenimento sì, ma anche di accoglienza e convivenza.

Secondo certi osservatori, questo terrorismo viene, come minimo, permesso, ed esisterebbe quindi una nuova “strategia della tensione” che mira essenzialmente a generare paura.

Ci può essere del vero in questa teoria e confermerebbe comunque il bisogno di un dio, cristiano o musulmano, che domini. Il concetto del dio dominatore da un lato crea sicurezza, dall’altro crea identità. In nome di un dio dominatore io vado a combattere e sconfiggere un nemico.

Un po’ come nelle crociate?

Esatto, o come con le bibliche guerre del popolo di Israele. È tipico di una cultura religiosa che spersonalizza le persone.

Se vogliamo ricordare il Freud di Il Futuro di un’Illusione questo è un approccio infantile.

Un’attitudine infantile ed essenzialmente non cristiana. L’immagine che ho del cristianesimo è di un dio che si inginocchia e lava i piedi degli uomini. La logica cristiana è quella del servizio e non quella del dominio, la logica di chi offre la vita, non di chi la toglie. Il Dio cristiano non chiede sacrifici, si sacrifica per gli altri e chiede a noi di fare lo stesso.

Come vede il famigerato accordo tra l’Europa e la Turchia di Erdogan?

Stiamo ponendo delle premesse vicine al genocidio. O l’Europa si decide a salvare delle vite o continua ad erigere muri e fili spinati. Per non dimenticare poi che trattiamo sulla pelle di migliaia di persone con un personaggio come Erdogan, non certo un esempio di democrazia.

Cosa propone?

Innanzitutto bisogna fare un’analisi più seria e approfondita del fenomeno immigrazione. Per ciò che riguarda la Siria, per esempio, continuiamo a produrre e a esportare armi che hanno alimentato e possono continuare ad alimentare un conflitto. Questo a sua volta finisce per causare la fuga di uomini, donne e bambini. Insomma: un crudele circolo vizioso. Facciamo poi quest’assurda divisione tra migrante politico e migrante economico, dimenticando che sono state delle scelte politiche a causare l’immigrazione economica.

Si propone d’introdurre un termine ombrello: il «migrante ambientale», colui che è costretto a lasciare la propria terra per motivi economici e/o politici.

Giusto. Al massimo si può distinguere tra «migrante ambientale» e chi sceglie di emigrare per puri motivi personali. Ma chi insiste nel separare, e quindi a discriminare, il rifugiato politico dal migrante economico non ha capito un fico secco.