Si era concluso dopo quasi un quindicennio il primo tempo della legge quadro (394/1991), quando le aree naturali protette – parchi, aree marine, riserve – sembravano costituire quell’eden per il cui avvento nel corso di tutto il Novecento si erano adoperati con forte tensione e grande tenacia singoli personaggi prima, movimenti poi, infine partiti. Della validità della legge erano prova l’impetuoso processo istitutivo di nuovi parchi, la concretezza dei primi risultati, il ruolo che le aree protette cominciavano a svolgere nelle politiche locali e in quelle generali. Utopia e sogno si concretavano in fatti: quei fatti penetravano nel muro della diffidenza, generavano speranze in popolazioni e amministratori, accendevano l’entusiasmo di tanti giovani.

ERA PROPRIO LA LEGGE QUADRO A INDICARE la strada maestra e a rappresentare il punto di riferimento fondamentale sia per l’alta missione che essa attribuiva e continua ad attribuire alle aree protette – luoghi di incontro profondo tra le persone e la natura e nello stesso tempo laboratori e modelli di uno sviluppo in armonia con l’ambiente – sia per la gestione innovativa introdotta: quella dimensione di creatività continua e di coinvolgimento partecipe che, come amava sottolineare Carlo Desideri, studioso profondo del diritto dell’ambiente e delle aree protette, costituiva «l’elemento speciale – il valore aggiunto – delle aree protette rispetto alle politiche ordinarie di pianificazione territoriale e a quelle settoriali di tutela ambientale».

Con il secondo tempo è mutata radicalmente la prospettiva. La realtà è diventata, per un verso, quella di un progressivo cedimento a una burocrazia paralizzante e di una gestione fondamentalmente compromissoria e, per altro verso, quella di un progressivo affievolimento di quei valori e di quegli ideali che avevano unito le forze politiche in una felice stagione parlamentare. Il rischio soprattutto per i parchi è quello di essere catturati dalla dominante cultura economicistica, di omologarsi agli enti territoriali o addirittura di trasformarsi in gigantesche pro loco, comunque di soccombere come aree naturali protette. La speranza che essi possano costituire modelli di un nuovo modo di gestire il territorio viene ricacciata sul piano delle illusioni utopistiche da un realismo interessato e incolto.

LA VICENDA DELLE MODIFICHE DELLA LEGGE QUADRO rappresenta l’evidente dimostrazione di questo passaggio. Anche nel corso del primo tempo la legge era stata modificata, ma i principi fondamentali non erano stati intaccati: anzi, proprio le modifiche più importanti – quelle del 1998 volte a sottolineare le identità territoriali e a rafforzare la partecipazione degli enti locali – erano il segno di una nuova consapevolezza e il frutto di uno sforzo condiviso per costruire forme originali di collaborazione istituzionale e di politiche di sistema. In questo clima poteva anche essere assorbita la soppressione del programma triennale per le aree protette che pure si era rivelato particolarmente utile. Ma già nel 2006 il clima era cambiato: una modifica del Codice dei beni culturali e del paesaggio che stabiliva la prevalenza del piano paesaggistico sul piano del parco, fino ad allora sovraordinato rispetto a ogni altro strumento di pianificazione territoriale, faceva cadere uno dei principi della legge quadro.

È proprio la vicenda di questa legge – delle modifiche approvate e ancor di più di quelle proposte in Parlamento nella scorsa legislatura e contenute in un testo unificato voluto soprattutto da una parte del Pd con l’appoggio di Forza Italia, fortunatamente non approvato in via definitiva – a dimostrare il cambio di orizzonte.
Nel 2013, con la giustificazione farisaica della riduzione della spesa pubblica, viene approvato un dpr (n. 73) che riduce il numero dei membri del consiglio direttivo dei parchi nazionali da 13 a 9 ed elimina la componente scientifica, incidendo così sia sul principio della natura mista del consiglio sia soprattutto su quello dell’approccio scientifico nella gestione del territorio, con la conseguenza di sottrarre una pietra basilare alla costruzione del «laboratorio parco». Il testo unificato proponeva addirittura di inserire, al posto della componente scientifica, un rappresentante degli agricoltori o dei pescatori in violazione di un altro principio, quello secondo cui il consiglio direttivo rappresenta interessi generali e non corporativi.

DELLE MODIFICHE CHE HANNO AVUTO il sigillo della legge si devono ancora ricordare quelle relative al Parco nazionale dello Stelvio, che rischia di essere smembrato in tre porzioni (Lombardia, Trentino, Alto Adige), e al Parco del Delta del Po, che una recente legge, accolta con interessato entusiasmo da parte di alcuni personaggi, ha come solo risultato quello di eliminare la prospettiva del parco nazionale: unico caso tra i grandi fiumi europei di un delta che non è parco nazionale. È infine opportuno accennare a una conseguenza dell’assorbimento, costituzionalmente illegittimo, del Corpo Forestale dello Stato nell’Arma dei Carabinieri: la sorveglianza dei parchi si presenta oggi con il volto ostile di chi reprime anziché con il volto amico di chi aiuta a conoscere la natura.

QUANTO ALLE MODIFICHE CONTENUTE nel testo unificato – che sembra siano state ripresentate alla Camera all’inizio di questa legislatura (proposta n. 499, ma il testo non è ancora disponibile) – esse violavano la legge quadro addirittura in due dei principi fondamentali: la centralità della natura, il cui venir meno era clamorosamente dimostrato dalla soppressione della Carta della natura, e l’intangibilità del territorio, con l’introduzione del perverso sistema delle royalties che avrebbe aperto il varco a opere e attività impattanti. Completavano il degrado le proposte di nomina degli organi e del direttore dei parchi nazionali che avrebbero inevitabilmente portato a una gestione condotta esclusivamente in base alle scelte e ai condizionamenti imposti dalla politica locale. Questi condizionamenti, però, erano già stati introdotti di fatto dalle precedenti gestioni ministeriali che avevano avallato designazioni e nomine localistiche, non certo rispettose del dettato legislativo.

OCCORRE TRARRE LE CONCLUSIONI DA QUESTO ATTACCO a quel sistema di valori che in tutto il pianeta è alla base della istituzione e della diffusione delle aree protette e in particolare dei parchi nazionali. Va detto innanzi tutto che il futuro delle aree protette oggi non si gioca sulla riforma della legge, ma sulla politica, cioè sulla capacità delle istituzioni, delle associazioni, dei singoli soggetti di costruire strategie adeguate, conservando come riferimento la legge quadro che è, come viene unanimemente riconosciuto, una grande legge. Dobbiamo inoltre porci due interrogativi: il parco resta un istituto adeguato oppure servono nuovi strumenti per difendere la natura sempre più violentemente aggredita? Vi sono oggi le condizioni soggettive e oggettive per affrontare il cambiamento o di fronte alla forza degli aggressori e alla diffusione di una cultura che non è in grado di cogliere il valore profondo delle aree protette non resta che arrendersi?
Il parco a mio avviso può conservare la sua adeguatezza e anzi acquistare un ruolo di maggiore importanza e di rilevanza generale solo se la politica riuscirà a romperne l’insularità, a collegarlo in una visione unitaria all’intero territorio rilevante dal punto di vista naturalistico e paesaggistico, a farne un vero modello di gestione. Ritengo altresì che l’attuale contesto oggettivamente assai difficile per le aree protette possa essere affrontato solo da un movimento che riesca a superare al suo interno incomprensioni e rivalità per ritrovarsi unito sui grandi obiettivi ideali e per costruire così nuovi e adeguati percorsi strategici.