Con oltre 900 milioni di aventi diritto di voto chiamati alle urne, sono in corso in India le più grandi elezioni generali nella storia dell’umanità.

Dall’11 aprile fino al 19 maggio, in sette fasi distinte, il secondo Paese più popoloso al mondo è chiamato a eleggere i 543 parlamentari che per cinque anni andranno a determinare le aritmetiche politiche della Lok Sabha, la camera bassa del sistema legislativo indiano. La maggioranza parlamentare che si configurerà entro fino maggio nominerà il prossimo primo ministro indiano.

NARENDRA MODI, 68 anni, leader indiscusso del partito conservatore hindu Bharatiya Janata Party (Bjp) e capo di governo per gli ultimi cinque anni, è a caccia di una rielezione storica: nessuno prima di lui, nella destra indiana, è stato mai riconfermato per un secondo mandato. Sul fronte opposto, Rahul Gandhi, 48 anni, presidente del partito di centrosinistra Indian National Congress (Inc) e ultimo erede maschio della dinastia politica Nehru-Gandhi (tre primi ministri nell’album di famiglia: bisnonno Jawaharlal Nehru, nonna Indira Gandhi, padre Rajiv Gandhi), è considerato il leader di riferimento di una coalizione formata da una serie di partiti regionali uniti, per ora, da un unico obiettivo: impedire altri cinque anni di Modi.

Paragonare la campagna elettorale in corso a quella di cinque anni fa, quando il Bjp ottenne una maggioranza assoluta in parlamento che in India nessuno raggiungeva dagli anni Ottanta, rende bene la distanza che divide l’India immaginata e propagandata da Modi nel suo primo mandato dall’India «reale», l’India degli indiani.

La prima, il miracolo economico della seconda decade dei duemila, l’India del «progresso per tutti», della campagna promozionale attira-investimenti «Make in India», delle «smart city» futuristiche, l’India «che cresce più della Cina», l’India che siede tra i grandi della comunità internazionale.

La seconda, l’India mai così intollerante, l’India dei pogrom contro musulmani e dalit (i «fuoricasta», considerati impuri dal tradizionale sistema castale indiano), l’India di centinaia di migliaia di contadini in manifestazione contro il governo, l’India della repressione del libero pensiero, degli assassini – ancora irrisolti – di progressisti, poeti, scrittori e giornalisti, l’India del «se non vi piace, tornatevene in Pakistan», l’India dei raid nei campus universitari e degli arresti dei dissidenti «anti-nazione».

IL MODI VISIONARIO del 2014, l’uomo forte che promettendo crescita economica record e vikas, progresso, aveva ammaliato la maggioranza degli elettori indiani e degli osservatori internazionali, sembra aver esaurito la propria immaginazione. La sua è oggi una propaganda identitaria, settaria, modellata intorno alla paura e al sospetto.

Dietro allo slogan elettorale del Bjp, Phir Ek Bar, Modi Sarkar (ancora una volta, governo Modi), si cela la sostanza di un partito totalmente appiattito sul culto della personalità del proprio leader: tendenza non nuova nella storia dell’India moderna, dove l’aspirazione democratica è sempre scesa a patti con le pulsioni autoritarie della base.

Ma ora, inserita in un contesto internazionale che premia alle urne le molte permutazioni contemporanee della dottrina fascista, le conseguenze del modismo rischiano di far capitolare una volta per tutte la flebile tenuta democratica del subcontinente.

STANDO AL PROGRAMMA di governo del Bjp, i presupposti ci sono tutti. Delle 75 promesse elettorali contenute nel documento – tra sostegno all’agricoltura, quote rosa al 33% nelle assemblee parlamentari locali e semplificazioni del nuovo regime fiscale nazionale – i temi centrali su cui Modi punta per vincere la corsa alle urne sono tre: costruire un grande tempio dedicato a Ram sopra le ceneri della moschea Babri ad Ayodhya (demolita da una marea di ultrahindu all’inizio degli anni Novanta, con scontri intercomunitari che lasciarono sul campo oltre duemila morti in tutto il Paese); aumentare la sicurezza contro la minaccia pachistana; abrogare la legge 35A, che vieta ai non residenti di acquistare terreni e proprietà nel Kashmir indiano, unico stato a maggioranza musulmana della Repubblica indiana.

Tre temi che rischiano di far saltare il tappo di una pentola a pressione da 1,3 miliardi di abitanti di cui il 78% di fede hindu e il 14% musulmani, rapporto che fa dell’India il terzo Paese musulmano al mondo: una minoranza religiosa stimata intorno ai 200 milioni di persone. Uomini, donne e bambini sistematicamente soggetti a discriminazioni e violenze perpetrate da gruppi di vigilantes ultrahindu vicini alla Rashtriya Swayamsevak Sangh (Rss), organizzazione paramilitare extraparlamentare promotrice dell’ideologia del suprematismo hindu. Lo stesso Modi, andando oltre la retorica del «piccolo venditore di tè del Gujarat che si è fatto da solo», ha ininterrottamente militato nella Rss dall’età di otto anni.

SOLO POCHI GIORNI FA è stato pubblicato in rete il video di una scena ripetutasi negli ultimi anni decine di volte. Un gruppo di persone circonda un venditore di carne musulmano di 68 anni, in ginocchio nel fango, accusandolo di star vendendo carne di bovino senza licenza. Gli chiedono di che nazionalità sia, lui risponde che vive lì, nello Stato dell’Assam (nordest indiano), è indiano. Gli uomini lo insultano e lo malmenano mentre lo smartphone riprende tutto, poi lo costringono a ingurgitare carne di maiale. Come da copione, nessun membro del governo Modi ha rilasciato alcuna dichiarazione in merito.

«Il nazionalismo è la nostra ispirazione», ha dichiarato Modi presentando il programma elettorale dal quartier generale del partito a New Delhi. Parole che rilanciano un’idea di nazione ormai nemmeno più nascosta dietro la retorica del capitale: l’India, per il Bjp di Modi, deve diventare un «Hindu Rashtra», uno «Stato Hindu».

Una forzatura che incasella una religione millenaria dentro una lettura assolutista ed esclusiva nemmeno centenaria, teorizzata agli inizi degli anni Venti del secolo scorso dall’ideologo della Rss Vinayak Damodar Savarkar.
Dall’altra parte, l’Inc di Rahul Gandhi cerca, come si dice, di riportare la campagna elettorale sui «temi che interessano alla gente».

Con lo slogan Ab Hoga Nyay (ora avremo giustizia), il partito che guidò il movimento d’indipendenza dalla Corona britannica torna in un certo senso alle origini, con un manifesto dedicato ad alleviare le sofferenze degli ultimi: reddito minimo garantito per il 20% delle famiglie più povere, assistenza sanitaria gratuita per tutti, oltre tre milioni di posti di lavoro nel settore pubblico. Sullo sfondo, la difesa del diritto di ciascun cittadino indiano alla sicurezza, al rispetto e a una vita dignitosa.

L’ambizione di Rahul Gandhi è però viziata dalla brutale aritmetica elettorale indiana. L’Inc, forse esagerando nel fair play, non fa segreto di non avere alcuna chance di uscire dalle urne con una maggioranza assoluta in parlamento.

Nella migliore delle ipotesi, dovrà trovare un accordo post-elettorale con numerosi leader regionali potentissimi a livello statale e virtualmente inesistenti a livello nazionale, come Mamata Banerjee in Bengala Occidentale (Trinamool Party), Mayawati (Bahujan Samaj Party) e Akilesh Yadav (Samajwadi Party) in Uttar Pradesh, Naveen Patnaik (Biju Janata Dal) in Orissa. Un mix di personalità strabordanti in disaccordo su tutto, tranne che sul pericolo di un ennesimo quinquennio targato Modi.

QUEST’ANNO, slogan e promesse elettorali a parte, l’India è chiamata alle urne per un referendum sull’idea che ha di sé e del proprio futuro. Da un lato, il settarismo ultrahindu di governo, senza più nemmeno lo specchietto per le allodole della crescita economica irresistibile (6% di media, secondo New Delhi, ma in molti contestano la veridicità delle cifre ufficiali). Dall’altro, provare a interrompere la deriva autoritaria e riprendere a lavorare perché la democrazia nominale indiana possa davvero compiersi. Tertium non datur.