Bisogna imparare a convivere con gli incendi, un fenomeno inevitabile e intrinseco ai sistemi naturali, pianificando e governando il territorio, per renderli meno impattanti». Lo dice Davide Ascoli, ricercatore in Pianificazione forestale e selvicoltura all’Università di Torino, che ha studiato il governo degli incendi in un contesto di cambiamento climatico. È, inoltre, coordinatore del gruppo di lavoro «gestione degli incendi boschivi» della Sisef, la Società Italiana di Selvicoltura ed Ecologia Forestale.

L’Italia è la propaggine di un fenomeno globale, che vede un aumento di incendi dal Canada alla Siberia, dall’Australia alla California. Cosa significa questo?
Anche se andrei cauto nell’associare gli incendi in Sardegna, Sicilia o in Abruzzo con i cambiamenti climatici, perché se ne sono verificati di più gravi in passato, in queste settimane c’è una configurazione meteorologica di larga scala persistente che favorisce lo sviluppo degli incendi nel Centro-Sud Italia. L’aumento delle temperature e il vento caldo dell’Africa hanno portato la vegetazione a disidratarsi in poco tempo aumentandone l’infiammabilità. Uno degli aspetti del cambiamento climatico è, infatti, la persistenza di blocchi di bassa o alta pressione. Se sul Mediterraneo vi è la presenza dei venti dall’Africa dovuta alla bassa pressione nel Centro-Nord Europa, il Canada è stato interessato da una situazione di blocco di alta pressione sul Nord-Ovest degli Usa.

Ci sono analogie nell’infiammabilità della vegetazione tra Sardegna e Australia?
La Sardegna, come parti del territorio australiano, è soggetta a un periodo secco prolungato. È uno dei luoghi in Italia con maggiori spazi naturali, vegetazione a perdita d’occhio (come in Australia), con macchia mediterranea simile ai Mallee australiani e molti rimboschimenti di eucalipti, specie che arriva dall’Australia. Anche la Sicilia, sebbene presenti una maggiore estensione dell’agricoltura rispetto alla Sardegna, ha grandi estensioni di vegetazione infiammabile. Questi spazi estesi e altamente infiammabili rendono possibile lo sviluppo di incendi di grandi dimensioni non paragonabili a quelli australiani, ma comunque molto pericolosi.

Quali sono i criteri della loro propagazione e quanto sono determinanti?
C’è innanzitutto la presenza di vegetazione infiammabile, con un contenuto di acqua sotto una certa soglia e di materiale morto che si disidrata velocemente, nonché una continuità di paesaggio. In Sardegna esiste una grande estensione di arbusteti e di pascoli. Un ulteriore fattore è il forte vento. Per esempio, alcuni incendi in Portogallo nel 2017 sono stati spinti dall’uragano Ophelia. E, poi, ci vuole un innesco che in Italia per il 95% è di origine antropica, che non significa solo dolosa o criminale, ma in gran parte accidentale.
In Sardegna si indaga, però, per disastro doloso, ci sono interessi legati alla riforestazione che darebbe lavoro per anni.
I meccanismi che portano a compiere atti criminali, anche per ottenerne dei profitti, incontrollabili. Tuttavia, lavorando nel settore, posso dire che un movente criminale è stato comprovato raramente.

Nel dossier «Un paese che brucia» di Sisef e Greenpeace si è occupato dell’analisi statistica degli incendi e del ruolo del cambiamento climatico. Cosa emerge?
Un aumento degli estremi meteorologici al pari passo degli incendi. Venti o trenta anni fa non avevamo l’attuale capacità di intervento – ora ci sono centri di eccellenza europea come quello per l’addestramento degli operatori antincendio della Regione Toscana – ma l’influenza del cambiamento climatico è cresciuta esponenzialmente. E con una meteorologia estrema gli incendi si sviluppano al di là dei mezzi per lottare sul fronte del fuoco. Diventano anche più estesi, perché non siamo più un paese agropastorale. Dove un tempo l’incendio era contenuto da campi, pascoli e boschi gestiti, oggi trova vegetazione infiammabile che ne moltiplica i corridoi di propagazione.

Com’è cambiato il nostro rapporto con il territorio in conseguenza del progressivo abbandono delle campagne?
C’è stato un cambio dell’uso del suolo, dove prima c’era orto, ora c’è macchia mediterranea. E, con un aumento della naturalità, un fenomeno naturale come l’incendio si manifesta di più. È un processo naturale al pari della pioggia, che ha implicazioni negative per le persone, le case, le aziende. Bisogna mitigarne gli impatti economici (un ettaro di superficie bruciata costa 8 mila euro), ambientali e sociali. Avremmo bisogno di trasformare incendi grandi e impattanti, come quello nel Montiferru o di Pescara o sul Vesuvio nel 2017, dove ci furono dieci giorni di lotta attiva, in incendi più piccoli, meno intensi e sostenibili. Non possiamo evitarli: il territorio è infiammabile, gli estremi meteorologici sono all’ordine del giorno e un innesco ci sarà sempre. Dobbiamo lavorare preventivamente costruendo un sistema di governo del territorio in grado di creare un paesaggio più resiliente, andando a chiudere i corridoi di propagazione, tornando a fare un vigneto o un pascolo ben gestito. La pianificazione richiede un lavoro coordinato tanto nella lotta attiva quanto nella regolamentazione agricola e forestale. Un territorio presidiato fa sì che la gente ci rimanga. Posso, per esempio, produrre vino che «previene» gli incendi, e grazie al meccanismo dei Pes, pagamenti per un servizio ecosistemico, questo mi viene riconosciuto in quanto i consumatori sono oggi più attenti ai prodotti che aiutano il territorio e la collettività.

L’Earth Overshoot Day, il giorno che segna quando l’umanità ha esaurito le risorse rinnovabili prodotte in un anno è arrivato il 29 luglio, può riguardare anche l’importanza degli alberi come risorsa. Quanto la stiamo consumando?
Se le foreste, dopo una lunga contrazione, aumentano in Italia e in Europa, diminuiscono, invece, in Sudamerica, dove anche noi consumiamo legna, come spiega il documentario Deforestation Made in Italy. Gli alberi producono legno, un materiale tecnologicamente non replicabile, e in questo caso un conto è la deforestazione illegale in zone tropicali e un conto è una selvicoltura sostenibile nei boschi italiani. Gli alberi hanno, poi, un ruolo fondamentale mettendo in atto processi fisiologici che non riusciamo a riprodurre, come la fotosintesi, e stoccano parte di quello che noi immettiamo in atmosfera.

Ma cosa significa in termini ambientali avere migliaia di alberi in fumo?
Gli incendi hanno un ruolo ambivalente, possono, se contenuti, aumentare la biodiversità creando opportunità per nuove specie. Il problema dei grandi incendi è che, allargandosi su ampi spazi, causano modifiche ambientali su una vasta superficie, diminuendone la biodiversità. Per esempio, se una specie animale non riesce a spostarsi ne subisce l’impatto. Se non c’è più protezione dall’erosione da parte degli alberi su tutto il bacino, il dissesto idrogeologico causerà ulteriori danni. Dipende tutto dalla scala e dalla severità. I cambiamenti climatici sono veloci e i processi naturali fanno fatica a stare dietro.