Pubblichiamo un’anticipazione del testo teatrale «Garofani rossi per Pablo. Il funerale di Neruda» in uscita oggi per Claudiana (postfazione di Gabriele Romagnoli). La scena è il ricordo del funerale.

Omero: Martedì 25 alle nove di mattina attraversammo un’altra volta il fango e l’acqua che inondava l’entrata con la cassa che conteneva Pablo. I giornalisti stranieri, di fronte a quella scena, non potevano credere ai loro occhi.

Un’amica di Pablo: Riuscirono a portare fuori la bara. Si era radunato un considerevole gruppo di operai e studenti e sentii il grido: «¡Camarada Pablo Neruda!».

tutti: «¡Presente!».

Un’amica di Pablo: Tanto lì come al cimitero, più tardi, furono molti, anche tra i giornalisti, a non poter trattenere le lacrime.

Omero: La colonna aumentava. C’erano molte donne con fiori, c’erano studenti e anche bambini con i loro genitori. Da molte finestre si affacciavano persone per un saluto silenzioso con un fazzoletto o semplicemente alzando la mano, erano donne di casa, alcuni vecchi.

Un giovane militante: Non era cosa da poco perché chiunque apprezzasse la vita in quel momento non doveva mostrare simpatia verso null’altro che il golpe. Alcuni aprivano la finestra e non si muovevano, semplicemente restavano fermi guardando con gli occhi fissi, inscrutabili. Bastava perché non era un residuo di prudenza! Era rischiare tutto per dire addio al poeta.

Un giornalista: C’era qualcosa di particolare in quel corteo, nessuno guardava in faccia nessuno, tutti guardavano dritto davanti a sé. Sentivamo che il corteo stava crescendo. Vidi una donna che piangeva. Prese un velo, se lo mise in testa come in segno di lutto e si unì alla fila. Credo che anche la polizia si mescolò in mezzo a noi, molti giravano attorno confusi, con un atteggiamento tra l’aggressivo e lo sconcertato, senza sapere che fare mentre il corteo procedeva. C’era anche molta tensione come quando incrociammo un gruppo di soldati con i mitragliatori in mano puntati contro di noi. Ma ciò nonostante procedevamo. Sembrava impossibile; pareva un sogno e a un certo punto qualcuno iniziò a cantare l’Internazionale. In quel momento l’Internazionale! Erano frasi poi morivano nel silenzio. Ma riprendeva in altre parti del corteo. C’era come un mormorio dell’Internazionale. Qualcuno iniziò a recitare versi di Neruda a voce alta. All’inizio erano solo poche file di persone. Adesso il corteo continuava a crescere in modo imponente, fino a darci la sensazione della massa.

Tutti i personaggi si alzano contemporaneamente in piedi

Un amico di Neruda: Più volte, qualche studioso di letteratura si è consumato gli occhi consultando cartine per scoprire dove fosse quel posto dai tramonti prodigiosi, davanti a quale mare, a quale latitudine terracquea, in che paese si trovasse «Maruri», i cui tramonti tanto avevano affascinato il poeta, e più d’uno non ha voluto credere che Maruri fosse una strada modesta di case proletarie sulla riva nord del fiume Mapocho, un magro corso d’acqua che taglia in due la città di Santiago come un’orrenda cicatrice.
Neruda ci ha insegnato a ricavare bellezza e poesia da persone, luoghi e cose apparentemente semplici.
Figlio di ferroviere, ha avuto la vita segnata dal movimento, un andare e venire in un territorio – l’unico – che sentiva veramente suo e nel quale era sempre a suo agio. Quel territorio ha molti nomi, ma io preferisco definirlo «della responsabilità solidale».
Molti si riferiscono a Neruda come al grande Poeta dell’Amore – e lo è – dimenticando però che la sua opera è tellurica, attaccata alla terra come le radici delle vetuste piante della sua patria australe.

La prima volta che ho visto Neruda io avevo quattordici anni e lui aveva già la sua età. Nel vecchio cinema Nacional insieme ad altri ragazzi e ragazze, ricevetti dalle sue mani la tessera di militante della Gioventù Comunista e fu allora che, con la sua voce stanca di uomo del Sud, ci invitò a sognare, a essere grandi sognatori, e a rendere possibili questi sogni che erano i sogni di tutta l’umanità.

[do action=”citazione”]Neruda ci ha dato le basi di un orgoglio necessario: l’orgoglio di essere latinoamericani e di intravedere un’identità che ancora oggi si dibatte fra grandezza e miseria, gioia e  disastro, tradimento e speranza[/do]

Per quelli della mia generazione, Neruda è stato prima di tutto un cilenissimo Cyrano de Bergerac. Nascosto dietro la luce dei suoi versi, ci sussurrava all’orecchio le parole magiche per accecare d’amore le ragazze. Poi ci ha dato le basi di un orgoglio necessario: l’orgoglio di essere latinoamericani e di intravedere un’identità che ancora oggi si dibatte fra la grandezza e la miseria, fra la gioia e il disastro, fra il tradimento e la speranza.

Nel suo cuore di Poeta palpitavano con forza il Cile, l’America Latina e la Spagna. Fu grazie al suo interessamento che un giorno, dal porto francese di Trompeloup, salpò una nave che trasportava un meraviglioso carico umano: più di duemila sconfitti repubblicani, un’emigrazione forzata, come tutte, che però significò per il Cile il più grande apporto culturale della sua storia.

nota: Dopo aver visto questo spettacolo, l’autista di Neruda Manuel Araya ha raccontato a Renzo Sicco, direttore artistico della compagnia Assemblea Teatro, i suoi sospetti sul possibile omicidio del poeta. Dalle sue parole è nata l’inchiesta che ha portato a esumare la salma circa un mese fa.

Luis Sepulveda e Renzo Sicco si sono conosciuti grazie a una zuppa di pesce cucinata a Puerto Natales. Sepulveda scrisse che quella zuppa meritava un viaggio alla «fine del mondo». E l’italiano, quando ci andò, mandò una cartolina allo scrittore confermando. I due si sono conosciuti poi nelle Langhe (senza zuppa di pesce stavolta) e nel 2009, come «hermanos», hanno collaborato a questo testo.