Presentato alla mostra di Venezia del 2013 dove ha vinto il premio Fipresci della critica internazionale Tom à la ferme (Tom alla fattoria) del giovane regista canadese Xavier Dolan arriva nelle sale con qualche anno di ritardo e un po’ più di clamore attorno al suo nome. Classe ’89, autore di tre film presentati a Cannes: J’ai tué ma mère (2009), Les amour immaginaires (2010), Laurence Anyways (2012) ha ricevuto il gran premio a Cannes per Mommy (2014) e per Juste la fin du monde (2016). Il film è tratto da una pièce teatrale di Michel Marc Bouchard, ma l’ambientazione cinematografica approfitta per ingigantire con una visione dall’alto la campagna del Québec piatta a perdita d’occhio che diventa un luogo a parte dove fare esplodere pulsioni erotiche represse in uno scambio di vittima consenziente e carnefice che diventa poi vittima inaspettata e rende evidente al pubblico come in una danza, la presenza difficilmente distinguibile di genere.

Eppure tutti gli elementi sono già delineati dal regista fin dall’inizio come ad indicare allo spettatore uno schema da seguire: la morte così dolorosa del compagno da creare il vuoto intorno, la campagna sterminata, la mancanza di campo per il cellulare, nessuno che viene ad aprire alla porta, il venir meno delle parole che non siano quelle di canzoni ascoltate insieme (come Les moulins de mon coeur di Michel Legrand in versione canadese) o le prime scritte di getto su un fazzoletto di carta (è come se una parte di me fosse morta e io non potessi piangere»).

Si ricompone come in una triangolazione psicanalitica un certo tipo di schema sessuale, o familiare: l’elemento materno, quello maschile o meglio rudemente macho-campagnolo, e un terzo in cui collocare lo stesso spettatore oltre che il protagonista. Ma ad ogni cambio scena la composizione è inaspettata, le alleanze significative.

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Tom (interpretato dallo stesso regista), giovane pubblicitario di Montréal si reca al funerale del suo amante Guy e trova ad accoglierlo la madre (Lise Roy) che non si dà pace perché non si fa vedere quella che crede essere la fidanzata del figlio, mentre il fratello Francis (Pierre-Yves Cardinal) vorrebbe annientarlo, gli intima di non confessare in alcun modo il tipo di rapporti che aveva con il fratello, in modo che la madre non scopra che di fidanzate non c’è mai stata l’ombra. Ma soprattutto perché la presenza di Tom sconvolge la sua identità, la sua omosessualità tanto repressa da diventare un’arma offensiva, un gioco che eccita Tom e lo porta a sua volta a condurre il gioco. Come in un duello, una battaglia tra due guerrieri e non è detto che sia il più muscoloso a vincere, in un quel luogo agricolo, la fattoria. Lì le parole non contano per niente, mentre sono proprio le parole la specialità di Tom pubblitario, quelle con cui cerca di alleviare la tristezza in tutti i suoi sinonimi, le scrive per l’orazione funebre, nel suo primo sfogo, ed ecco che vengono sostituite dalle azioni violente, dal pestaggio, canonico nel genere, ma rivisitato con rovesciamenti imprevedibili.

Mentre il ritorno alla città diventa impossibile da praticare, le ombre del noir si affollano sulle loro teste, gestite senza sottomissione ai generi. La padronanza di mélo, commedia, classici, appena un pizzico di horror (Xavier Dolan era tra gli interpreti dello sconvolgente Martyrsdi Pascal Laugier) è notevole, condotta con una non comune sensibilità. Fa decollare un finale di grande maestria la scena ambientata nel bar locale, dove spicca notevol.mente il barista Michel Tadros, padre del regista, interprete consumato anche di numerose serie televisive.