Il fuoco incrociato dei poteri politici iracheni sul premier al-Abadi prolunga lo stallo che affligge il paese dal 2003. A preoccupare sono i possibili effetti della crisi interna all’esecutivo sulla pianificata controffensiva su Mosul: se a Palmira, contro lo Stato Islamico, a combattere è stato un fronte comune (Damasco, Hezbollah, Mosca), in Iraq le spaccature interne tra le forze anti-Isis rallentano l’avanzata. Non è un caso che ancora siano meno di dieci i villaggi liberati a sud di Mosul, già quasi tutti abbandonati dagli islamisti.

In campo ci sono forze contrapposte, con interessi diversi: i peshmerga di Erbil, interessati a rafforzare i nuovi confini del Kurdistan iracheno e a mangiare territori intorno alla seconda città irachena; le tribù sunnite che hanno formato unità di combattenti e si contrappongono alla presenza delle milizie sciite guidate da Teheran; l’esercito regolare iracheno, ancora alle prese con una strutturale debolezza interna.

A fare da sfondo alla battaglia per Mosul c’è lo scontro in corso in parlamento e che ha come target il primo ministro al-Abadi. Lunedì parlamentari di diversi blocchi politici avevano lanciato un ultimatum: nuovo governo entro oggi, giovedì, o il premier perderà la fiducia. L’obiettivo è un rimpasto di governo che sostituisca gli attuali ministri – nominati in base all’appartenenza etnica e religiosa, un settarismo istituzionale che radica la corruzione delle istituzioni – con dei tecnici indipendenti. La conseguenza sarebbe la cancellazione del sistema delle quote settarie.

Ma consenso intorno ad un esecutivo di tecnici non c’è. Il blocco Ahrar del religioso sciita Moqtada al-Sadr fa pressioni perché al-Abadi trasformi l’attuale governo, ne faccia uno strumento nella lotta alla corruzione, indebolisca l’influenza di Teheran e approvi le riforme promesse ad agosto.

Per farlo al-Sadr non ha esitato a mostrare i muscoli: le scorse settimane hanno visto marce e proteste nella capitale, conclusesi con un sit-in del leader cominciato domenica dentro la Zona Verde. Al-Sadr ha ottenuto un incontro con il premier durante il quale ha ribadito la richiesta di un nuovo governo di tecnici. Dalla sua ha un potere significativo: se in parlamento il suo blocco politico gode solo di 34 seggi su 328, fuori i suoi sostenitori aumentano, insieme all’autorità dei miliziani delle Brigate della Pace, nate dalle ceneri del potente Esercito del Mahdi.

Dall’altra parte stanno i partiti sciiti e sunniti che temono di perdere autorità, se allontanati dal governo. E infine i cinque partiti kurdi rappresentati a Baghdad che pretendono il 20% dei ministeri (ribadendo quindi la divisione settaria delle istituzioni): «I kurdi non accetteranno meno del 20% dei posti ministeriali nel nuovo esecutivo – ha detto il parlamentare Ala Talabi, riportando la condizione presentata al presidente del parlamento al-Jabouri – I kurdi devono partecipare al processo politico. Questo governo non dovrà ripetere gli errori del precedente».

Il premier al-Abadi prova a resistere alla tempesta, scatenata dalle ambizioni opposte di tutte quelle autorità ufficiose che da anni gestiscono il paese: attraverso reti clientelari che hanno fatto della corruzione la normale moneta di scambio, le istituzioni hanno ingoiato e fatto sparire miliardi di dollari arrivati dall’estero per ricostruire il paese. Dopo essersi rivolto agli iracheni in tv promettendo riforme serie e rapide e imputando ai parlamentari divisi l’attuale stallo, ieri il primo ministro ha quindi annunciato che presenterà oggi al parlamento la sua proposta di rimpasto.

Resta da vedere quale sarà l’appoggio di cui godrà il premier, che in mano ha un Iraq spaccato e difficilmente gestibile, per questo facile preda dello Stato Islamico. Seppure l’Isis abbia perso territori e il collegamento diretto tra Mosul e Raqqa, manca quella fondamentale unità nazionale necessaria a rispondere con fermezza ed efficacia e un consenso radicato verso il governo centrale di Baghdad. Ma la frammentazione del paese è già realtà, con Erbil che punta all’indipendenza kurda e la comunità sunnita desiderosa di auto-gestirsi per bypassare le discriminazioni di uno Stato a maggioranza sciita.