Tre mesi, tre appuntamenti con monumenti del più avanzato jazz europeo dell’ultimo quasi mezzo secolo: Novara Jazz ha iniziato il 2014 offrendo agli appassionati in età più tenera un bel corso di alfabetizzazione, e a quelli più stagionati il piacere di ritrovare vecchie e care conoscenze ancora appassionate, dopo lunghe carriere, a fare musica non conformista. Dal quartetto del settantatreenne Phil Minton Quartet, che ha suonato a gennaio, alla data recente di Peter Brötzmann che continua ad essere sinonimo di free fino all’ultimo respiro, di parossistica e cingolata energy music, di impressionante potenza di fuoco da machine gun (per riprendere il titolo di un suo epocale album inciso nel fatidico maggio ’68) dell’improvvisazione radicale: tutte cose di cui il sassofonista tedesco è del resto stato e rimane un maestro. Ma è fargli torto schiacciarlo, pur se per glorificarlo come irriducibile guastatore, sull’immagine del caterpillar. In realtà Brötzmann ha non da oggi mostrato una personalità che, come si è visto a Novara, è molto più complessa. La melodia per esempio gli è tutt’altro che estranea.

Settantatreenne, nel suo Full Blast Trio si confronta con due musicisti svizzeri, Marino Pliakas al basso elettrico e Michael Wertmüller alla batteria, che gli offrono lo stimolo di soluzioni che spesso scartano rispetto a modalità jazzistiche. L’accanito drumming di Wertmüller ha a volte accenti rock, mentre Pliakas impiega il suo strumento anche come fonte di effetti sonori ossessivi.

In un brano al sax tenore Brötzmann esordisce da solo con barriti free, da cui piano piano emerge un motivo, e c’è persino qualcosa di un Gato Barbieri: non che il sound sia quello dell’argentino, naturalmente, ma lo ricorda il suono turgido e il modo di rimuginare la melodia; che presto viene sommersa dall’irruzione di batteria e basso, quest’ultimo con suoni che sembrano esasperate percussioni metalliche. Quando poi Brötzmann suona il nasale saxello o il mesto tarogato, qua e là aleggia anche un che di folk. Come impagabile bis, con basso e batteria prima cupi e poi ribollenti, con grande pathos e al contempo essenzialità espone al tenore il colemaniano Lonely Woman, quindi si imbizzarrisce da par suo, per poi tornare al tema, ancora con qualcosa di barbieriano. Un gran romantico.

Trittico completato nei giorni scorsi, tornando al jazz d’oltre Manica, col trio del pianista Mike Westbrook, settantotto anni a breve, con Kate Westbrook, voce, e Chris Biscoe, sax alto e soprano. È proprio Biscoe, sessantasette anni, a svettare: colpisce soprattutto all’alto, con un timbro originale, una bellissima fluidità e sicurezza da sassofonista americano di altri tempi, una grande scioltezza nel passare dalla melodia all’intemperanza free, concettoso e nitido anche quando il suo discorso si increspa. Kate Westbrook è invece vocalist piuttosto modesta, come appare in particolare da una precaria Alabama Song. Ma l’assortimento dei brani e la vena teatrale sono deliziosi: da Weill a Blues for Terenzi, dedicato all’indimenticato trombonista italiano che collaborò con i Westbrook, da A Foggy Day a Love For Sale, dalle canzoni costruite su London di William Blake a Blighters di Siegfried Sassoon, poeta degli orrori della Grande Guerra.