Sedersi in un dehors a mangiare un gelato, a volte può trasformarsi in uno studio sociale. E’ quello che mi è successo pochi giorni fa a Milano. Quattro giovani sui 18 anni, tre maschi e una femmina, parlano di ragazze. Ragazzo 1: «Perché se una va in chiesa e poi fa certe cose, a me non me ne importa se va in chiesa, perché resta una zoccola. Io ho smesso di andare in chiesa quando ho visto quella roba lì». Ragazzo 2: «E che cosa hai visto?». Ragazzo 1: «È troppo brutto da dire». Ragazzo 3: «E dai erano lì e poi lei ha…no non lo dico. È meglio lasciar perdere. Comunque erano insieme, e quando hanno sentito qualcuno arrivare lei è scappata e si è messa a ridere». Ragazzo 1: «Perché se una ragazza non ha un fratello maggiore che la guida e la controlla, finisce così. Perché lei vive da sola con la madre, che si vede che quando in casa non c’è un uomo, le cose vanno così, che lei fa la zoccola». Ragazzo 2: «Ma che c’entra il fratello? Io penso che il 50% lo fa come sei stato educato, l’altro 50 lo fa come sei nato, e allora puoi avere il padre, il fratello, il prete che ti controlla, ma se sei così di natura non c’è niente che ti cambia. Toh, con un fratello forse arrivi all’80%, ma resta un 20 che non dipende dall’educazione». Ragazzo 1: «Comunque io la vorrei una ragazza, ma è davvero difficile trovarne una che non fa certe cose».

Di tutta questa confusione sulle relazioni, sulle percentuali di educazione e natura che determinano quel che si diventa, mi ha colpito soprattutto una cosa: tutti erano d’accordo nel dividere le femmine fra zoccole e non zoccole. Non è tanto importante sapere che cosa abbia fatto quella ragazza, se abbia solo pomiciato o sia andata un po’ oltre. Il punto centrale del loro discorso è che danno per scontato che se una donna, e solo una donna, fa certe cose è una poco di buono.

Benché siamo nel 2016, si è ancora a questo punto, segno che anni di femminismo e cambiamenti sociali non hanno scalzato del tutto quell’antico e profondo sentire che vede nella libertà sessuale di una donna un pericolo, un limite da non oltrepassare se si vuole mantenere una reputazione e quindi l’etichetta di ragazza per bene. E poi, ancora quell’idea che senza un uomo di famiglia che guida, indirizza e proibisce, le ragazze possano finir male, cioè darsi a chi vogliono, come vogliono e quando vogliono, nasconde il concetto di supremazia di uno sulla vita dell’altro, la convinzione che il maschio può prendersi tutte le libertà che vuole, mentre la femmina no perché deve mantenersi pura per lui. Tutto ciò dimostra che certe conquiste non sono per sempre e che vanno ribadite finché diventano comune sentire. Per quelle come me che si sono ribellate a quelle etichette è dura sentire ancora dei discorsi così e per di più da giovani che potrebbero essere nostri figli. Ho finito il mio cono e me ne sono andata pensando che c’è ancora tanto lavoro da fare e che forse in questi anni ci siamo un po’ troppo distratti, abbiamo dato per scontato quello che scontato non era.

Di recente, la televisione franco tedesca Arte ha ritrasmesso L’estate assassina di Jean Becker, film girato nell’82, un po’ scombinato ma con una bellissima e bravissima Isabelle Adjani dal comportamento molto disinibito che fa innamorare, e sposa, un giovane di origine italiana con una madre che «Detesta tutto ciò che porta una gonna». Bisognerebbe invitare quei giovani a vedere film così. Di certo uscirebbero dicendo che la Adjani è una zoccola, ma poi sarebbero costretti a pensarci su e imparerebbero che trent’anni fa i loro coetanei avevano molte, ma molte meno gabbie mentali.

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