«Sono uscito per fare delle foto. Torno a casa cinque anni dopo». Sono le prime parole di Mahmoud Abu Zeid da uomo libero. Ieri facevano il giro dei social le foto del suo sorriso e del gesto che lo ha reso famoso dietro le sbarre, quando mimava il click della macchina fotografica, abbracciato alla madre nella loro casa al Cairo.

Noto come Shawkan, era stato arrestato mentre faceva il suo lavoro, il fotoreporter, nell’estate del 2013. Era trascorso appena un mese dal golpe del generale al-Sisi che ha deposto il governo dei Fratelli Musulmani. A metà agosto le proteste dei sostenitori del presidente Morsi venivano massacrati, circa mille uccisi dalle forze di sicurezza egiziana in piazza Rabaa, nella capitale.

Shawkan scattava foto, raccontava. È stato imputato in uno dei famigerati processi di massa dell’era al-Sisi con oltre 700 persone. Dopo innumerevoli udienze e rinvii, è stato condannato nel 2018 a cinque anni e sei mesi. Ormai già scontati, ieri è uscito.

Un rilascio a metà: per i prossimi cinque anni dovrà presentarsi ogni giorno alle 18 in una stazione di polizia, passare lì la notte fino alle 6 del mattino dopo. Inoltre non potrà gestire le proprie finanze. Eppure ieri nel quartiere Fisal al Cairo, circondato da amici e familiari, ha detto che riprenderà a fare il suo lavoro. Consapevole di non essere «né il primo né l’ultimo giornalista detenuto».

In Egitto ne restano incarcerati 25, mentre fuori oltre 500 media sono stati chiusi e oscurati per ordine governativo. Per questo lo scorso anno l’Unesco ha riconosciuto il premio per la libertà di stampa proprio ad Abu Zeid, simbolo di una realtà radicata.