L’archivio di Mario Dondero, che valenti e appassionati volontari stanno pazientemente allestendo a Fermo presso la Fototeca Provinciale, comprenderà, una volta concluso l’imponente lavoro di catalogazione, all’incirca più di seicentomila scatti. Un patrimonio inestimabile capace di raccontare il Novecento attraverso lo sguardo e la delicata presenza di Mario Dondero. Il fotografo e il suo movimento sono ricordati in un piccolo libro, Dov’è Dondero! prodotto dal Circolo culturale Menocchio che, avvalendosi di una serie di contributi di amici e compagni di viaggio, racconta una delle figure emblematiche del fotogiornalismo italiano.
Una narrazione sentimentale che ricorda e recupera l’umanità di Dondero come elemento fondante del suo stesso sguardo: un’antropologia fotografica che si fonda sull’incontro e la relazione, ma al tempo stesso sulla rapidità e la capacità di cogliere ed estendere l’attimo all’infinito.

DA SEMPRE OSTILE a ogni forma di nostalgia, Mario Dondero interpretava il proprio lavoro con l’eleganza di un dandy capace di vivere il presente quale forma precisa ed efficace di contemporaneità. La fotografia diviene con Mario Dondero la presa diretta di un discorso che non può avvalersi di memoria se non di quella che va maturando in continuazione fuori da ogni forma di stabilizzazione o, peggio ancora, di retorica. L’istante è la messa in chiaro di un percorso che è puro movimento. Testimonianza di un passaggio e non del passaggio in sé, che ha dunque valore per quello che sta per accadere ancora e non per quello che è accaduto e quindi già visto e in ogni caso comunque perso.
Si domanda dove mai sia finito Mario, Michele Smargiassi nel suo intervento in Dov’è Dondero! ricordando sia la discrezione sia la capacità di un autore di restare umano e lontano da ogni scostante etichetta di nome e di fama. Una necessità per Dondero fondamentale perché il lavoro assume la sua forma solo nella capacità di cogliere l’umanità e quindi come frutto di uno scambio che costruisca un percorso comune, un valore non quantificabile se non in quella declinazione del discorso così essenziale che sta nel piacere e nel godimento.

IN TAL SENSO, l’ostilità di Dondero per ogni forma di archiviazione o catalogazione sta nella possibile monumentalizzazione dell’oggetto e quindi nella perdita di senso dell’istante ridotto a feticcio. Tuttavia è evidente come racconta Angelo Mastrandrea a proposito della messa in costruzione dell’archivio, come Mario Dondero seppe interpretare nella dislocazione confusa e occasionale di scatole di negativi, fotografie e diapositive distribuite tra abitazione, redazioni e case di amici, un’idea di archivio totalmente contemporaneo che vive in quanto tale solo nell’uso. Un archivio potenziale che è specchio della dinamica di lavoro di Dondero e non per questo meno efficace, ma anzi capace di restituire l’istantaneità del gesto. Un archivio umano per certi versi che si avvale della memoria del momento, ma che non tradisce nell’onestà del ricordo l’istante fotografato, una coesione totale in cui il gesto unico e irripetibile di fare una foto è paradigmatico del fare il fotografo. Una gestualità politica che ritorna nella convinzione di un percorso che non vive e ancor meno necessita di compromessi, perché lo stesso concetto esula da un tragitto che mai interpreta una dinamica di presenza fatta di esclusivo accrescimento individuale. È nel collettivo che Dondero trova infatti la propria dimensione e la propria libertà d’azione. Dinamica che è possibile ritrovare nella mostra allestita in questi giorni e fino al 13 maggio a Bergamo presso la Galleria Ceribelli che di Dondero propone, tra gli altri, alcuni scatti inediti frutto della documentazione in corso presso l’Archivio di Fermo.

UN PERCORSO tra politica e cultura, tra cinema e popolo senza mai alcuna possibile disitermediazione. Un unico e continuo discorso in cui un umanissimo Vittorio Gassman che appare perso con lo sguardo diretto nella camera e il gioioso ragazzino barman di Lisbona, sembrano dialogare tra stadi diversi eppure comuni dell’esistenza. Un viaggio sottile, una qualità lucida che trasforma il Novecento e le sue derive confuse degli «anni zero» in una pasta ancora malleabile, criticabile o meno, ma ancora possibile all’uso. Un’interpretazione viva della storia che fa di Mario Dondero un movimento privo di spiegazione: il senso è nel gesto e non nella sua definizione.