L’ultima strage, il 24 novembre 2019. La nave porta-bestiame Queen Hind (battente bandiera di Palau, un paradiso fiscale) si è capovolta dopo aver lasciato il porto romeno di Midia, diretta verso l’Arabia saudita con un carico di 14.600 pecore vive. L’equipaggio è stato tratto in salvo. Un gruppo animalista ha recuperato qualche decina di animali, gli unici sopravvissuti.

NON E’ UN CASO ISOLATO. NEL GIUGNO 2016, 13.000 pecore morirono per mancanza di cure sulla nave Trust I fra Romania e Somalia. E nel 2015 un’imbarcazione troppo carica, con 5.000 bovini si è capovolta e inabissata nel porto di Barcarena, in Brasile; illeso l’equipaggio, ma delle migliaia di mucche imprigionate in una trappola per topi solo poche centinaia sono riuscite a galleggiare nel mare di sangue delle loro compagne, mutilatesi nel tentativo di liberarsi.
Vacche e vitelli, pecore e capre, maiali, polli in genere arrivano vivi, ma dopo un infernale ultimo viaggio verso il macello: nelle stive di una gigantesca nave a molti piani, nei cassoni con sbarre e oblò dei tir, nei vagoni piombati dei treni o (più raramente) nelle pance degli aerei.

L’IMPORT-EXPORT DI «CARNE VIVA» è un andirivieni internazionale che conta quasi due miliardi di animali ogni anno. Secondo le stime della Fao (Organizzazione delle Nazioni unite per l’alimentazione e l’agricoltura), nel 2017 hanno varcato le frontiere 1,8 miliardi di polli e 75 milioni fra suini, bovini e ovini. Un’infografica del quotidiano The Guardian illustra alcuni percorsi che danno anche un’idea della vocazione produttiva nei paesi d’origine e dei consumi nei paesi di «accoglienza». Esempi: quattro milioni di polli vivi dai Paesi bassi alla Thailandia; 640.000 pecore dall’Australia al Qatar; oltre 560.000 bovini da Brasile e Uruguay alla Turchia; oltre 6 milioni di maiali dalla Danimarca alla Polonia.

Spiega l’organizzazione Compassion in World Farming (Ciwf) – fondata nel 1967 nel Regno unito per tutelare gli animali d’allevamento nel mondo – che nei trasporti sulle lunghe distanze i problemi per gli animali e la salute umana sono tuttora numerosi: «Sovraffollamento con rischio di finire calpestati; spossatezza e disidratazione; temperature estreme; dolore e stress; rischio di naufragi e incendi; lunghe attese ai porti e alle frontiere» e anche diffusione di patologie, come peste suina, influenza aviaria, malattia della lingua blu.

E’ UN COMMERCIO GLOBALE IN CRESCITA. Nel 2007 riguardava «solo» un miliardo di animali. Mercato importante il Medioriente, anche perché i paesi musulmani preferiscono controllare che la macellazione sia halal, mediante iugulazione. Nel 2017, anno di riferimento, i sette paesi principali importatori di animali vivi sono stati, in ordine di importanza: Stati uniti, Arabia saudita, Polonia, Italia, Hong Kong, Turchia e Qatar (malgrado la sua ridotta popolazione).

Leader nell’export, invece: Danimarca, Paesi bassi, Canada, Sudan, Australia, Spagna. Il Mali spedisce bovini in Senegal e Costa d’Avorio. Altro scenario per pecore e capre: i top 5 sono Sudan, Romania, Somalia, Australia e Spagna, esportano in Arabia saudita, Kuwait, Qatar, Yemen, Giordania e Oman. L’Italia importa un milione di ovini. Suini: li esportano soprattutto Danimarca e Paesi bassi (verso altri paesi europei), Canada, Germania, Cina verso Hong Kong – un commercio colpito però dallo scoppio della peste suina che ha decimato buona parte della popolazione di maiali dell’Impero di Mezzo. L’Europa domina l’export di polli; Paesi bassi e Germania da soli arrivano a 700 milioni di capi, anche oggetto di interscambio.

LE LEGGI PER IL BENESSERE ANIMALE – insieme a quelle igienico sanitarie – esistono, soprattutto in Europa, grazie alle lunghe lotte di molte associazioni. Basta leggere per esempio le Linee guida alle buone pratiche per il trasporto dei bovini, pubblicate dalla Commissione Ue nel 2018. Ma il mondo è grande. E anche dentro i confini del Vecchio continente, le violazioni delle leggi per il benessere animale (o almeno per un minor malessere) sono numerose. Organizzazioni come l’italiana Lav e la tedesca Animal’s Angels spiegano che otto controlli stradali su dieci, condotti con le forze dell’ordine, rivelano gravi irregolarità, non più tollerate in Italia dove fioccano multe. Intanto Ciwf insiste affinché l’appena eletto governo conservatore inglese rispetti l’impegno preso prima del voto: «Porre fine ai viaggi eccessivamente lunghi verso le stazioni di ingrasso o verso i macelli», considerando che ovunque le strutture preposte all’abbattimento sono sempre più concentrate. Comunque nel Regno unito il numero di animali esportati vivi si è molto ridimensionato: dai 2,5 milioni alla metà degli anni 1990 ai 50.000 nel 2018.

«SE CI FOSSE LA VOLONTA’, L’EXPORT DI ANIMALI vivi potrebbe cessare del tutto. Intanto chiediamo all’Ue di non mandare animali là dove le regole in materia non sono rispettate», spiega Ciwf. Anche per l’Eurogroup for Animals, l’Ue dovrebbe applicare le proprie norme per il benessere animale fino alla destinazione ultima degli animali nei paesi terzi; fino al macello insomma. Molto difficile. E l’Organizzazione mondiale per la salute animale (Oie), l’agenzia che concorre a fissare gli standard minimi anche in materia di benessere animale, non è però responsabile del loro rispetto: l’«umanità del trattamento» ricade sui governi. A volte è proprio la cruda realtà a imporre cambiamenti. Così, dopo una serie di crisi, Australia e Nuova Zelanda hanno ristretto l’esportazione di animali vivi.

IL CONSUMO DI NAFTA PER QUESTO GIRO DEL MONDO di prigioni ambulanti, dove insieme ai futuri pezzi di carne viene trasportato un peso lordo di parti da scartare a valle – scheletro, zoccoli, piume, pelli – ha anche un grande impatto in termini di emissioni climalteranti. Peraltro anche l’import-export della carne già macellata sarebbe un problema ambientale, richiedendo le celle frigorifere. In ogni caso, il trasporto di animali vivi non ha mostrato a livello globale segni di rallentamento, malgrado le nuove tecnologie di conservazione dei prodotti e gli stessi timori relativi alle zoonosi.