I titoli iniziali ci informano subito che American Animals non è basato su una storia vera ma è una storia vera, eppure non è «la verità» che cerca Bart Layton nel suo nuovo film presentato con successo allo scorso Sundance film festival, poi alla Festa di Roma, ora in sala grazie a Teodora film. La ricostruzione di Layton è del tutto «di parte», non sono i fatti che mette al centro ma le motivazioni ovvero: cosa può spingere dei giovani americani benestanti, studenti di una borghesia della provincia americana a compiere un furto col rischio di rovinarsi – come è accaduto – l’esistenza futura? Soldi? Non sembrano essere la loro prima preoccupazione, o almeno non l’unica.

SPENCER (Barry Keoghan) è un aspirante artista che brama di attraversare qualcosa di sconvolgente, Warren (Evan Peters) il suo migliore amico ha appena vinto una borsa di studio da atleta ma è anche lui insoddisfatto del college e delle prospettive che intravede nel suo cammino. È dunque più in quell’orizzonte odoroso di mais e carne bovina – siamo nel Kentucky – che nasce questo gesto, in un misto di noia e di feroce voglia di celebrità (che certo si accoppia anche a ricchezza) che può essere vinto solo con un «gesto eclatante». Nel caso il furto di libri antichi di grande valore – tra cui Birds of America di John James Audubon, una raccolta in quattro volumi di ritratti di volatili a grandezza naturale, completata a Londra nel 1838 e molto ricercata dai collezionisti- scoperti per caso da Spencer nella biblioteca universitaria.

LAYTON racconta di essere rimasto folgorato dalla vicenda, per questo ha contattato i ragazzi quando erano ancora in prigione iniziando a scrivergli delle lettere. «Pensavano di vivere in Ocean’s 11 e invece erano in Un pomeriggio di un giorno da cani» ha detto dei suoi protagonisti il regista. Che, appunto, nella trasformazione in «personaggi» nonostante l’uso – anche assai spericolato – di materiali di repertorio e di una patina «documentaristica» piuttosto accentuata, lascia fuori la cronaca come anche il giudizio dalla sua narrazione: è quel delirio, quella sorta di reinvenzione della realtà che lo interessa e su cui scommette che significa anche interrogare costantemente i limiti «morali» di un agire.

Un po’ come accadeva nel suo documentario L’impostore, su un tipo che si fa passare criminosamente per qualcun altro, il processo, ciò che avviene prima di passare all’azione, le pulsioni e le fantasie proiettate su quel colpo milionario che della realtà non tengono in considerazione nulla, tantomeno la possibilità del fallimento.
Layton guarda al true-crime ma nell’uso del «codice» si prende una certa libertà nel gioco di citazioni e allusioni metacinematografiche. Il suo spazio di osservazione è quello del delirio, di una sfida impossibile, di un «orizzonte di gloria» che i ragazzi, la cui rabbia ha perso la voglia di ribellione ed è solo narcisismo e celebrazione di sé, rendono «reale» nel solo gesto di essere immaginato. In fondo è la storia di una sconfitta, il «vero» è tutto qui.