Che il linguaggio possa essere usato ad arte per raggiungere uno specifico fine non è solo cosa nota, ma è oggetto di riflessioni che già nella Retorica di Aristotele individuano tecniche per comporre discorsi che arrivino alla «pancia» dell’uditorio.
Aristotele, tuttavia, era ottimista. Secondo lui, un oratore non dotato di saggezza, virtù e benevolenza non ha speranza di risultare persuasivo. Ma la storia ci insegna il contrario: nelle bocche sbagliate, la persuasione è un’arte che facilmente diventa abuso, in un parallelismo distorto tra forza ed efficacia che in un attimo legittima la legge della giungla e l’ostentazione del bicipite linguistico.

LE METAFORE che raccontano il linguaggio efficace viaggiano lungo l’apparato digerente, insistono sulla bocca e sulla semplicità di ciò che la attraversa: chi «parla come mangia» e lo fa «fuori dai denti», seguendo il motto di «pane al pane e vino al vino», offre in pasto un messaggio digeribile, che arriva dritto – per l’appunto – alla «pancia delle persone». Ma se la sincerità è questione di fatti (e di responsabilità), la digeribilità è in primo luogo una questione di modi.
Come la pubblicità e la politica insegnano, ciò che un messaggio comunica va ben al di là di ciò che dice, e con una «semplice» parola si possono far digerire come scontate intere narrazioni.
Pensiamo al salviniano Prima gli Italiani: viene sì fatto riferimento a uno specifico ordine, ma insieme (e soprattutto) si comunica la narrazione di una fila, lungo la quale gli italiani aspettano e vengono dopo qualcun altro che italiano non è, e ha rubato loro il posto.
Certi messaggi semplici, all’apparenza digeribili, passata la nottata risultano indigesti. Anzi, sono veri e propri pugni nello stomaco.

MA QUAND’È CHE L’EFFICACIA e la semplicità del linguaggio diventano violente? Quando si trasformano in attacchi offensivi ad personam, e quando inibiscono la possibilità di ragionamento complesso, prerequisito per la libertà di pensiero. Il primo tipo di violenza è quella urlata dal bullo, che si rivolge all’interlocutore per ferirlo attraverso termini sprezzanti, spesso densi di metafore svilenti e iperboliche. Sui social, le parole violente rimbalzano con un volume sempre più alto, nell’eccitazione del ritmo tribale. Questa violenza si vede, e in tanti, per fortuna, ne parlano.
Il secondo tipo di violenza è subdolo, meno facile da identificare e per questo più pericoloso del primo. Più che lividi e impotenza, porta all’annichilimento della possibilità di ragionare, di validare l’informazione ricevuta ed esercitare quindi la libertà di rifiuto.
Si tratta della comunicazione manipolatoria, che conduce chi la subisce a elaborare e memorizzare inconsapevolmente grandi moli di informazioni sapientemente impacchettate dentro l’implicito, dentro ciò che viene digerito anche senza essere stato masticato. O a considerare dato di fatto ciò che in realtà è mera opinione. «Penso che le sanzioni contro il popolo e il governo ungherese siano una follia, un atto politico di quell’Europa morente di sinistra che non si rassegna al cambiamento»: l’opinione di Salvini è che le sanzioni siano una follia e un atto politico di quell’Europa ecc.

SE LO CONFUTIAMO (Non è vero!), neghiamo la sua affermazione, cioè il fatto che le sanzioni siano una follia e un atto politico di quell’Europa ecc. Curiosamente, e diabolicamente, non c’è un modo diretto per confutare quell’Europa morente di sinistra che non si rassegna al cambiamento: il fatto che esista un’Europa di sinistra, che l’Europa di sinistra stia morendo, che l’Europa di sinistra non voglia il cambiamento, che il cambiamento sia inevitabile, pur essendo opinioni, vengono presentati come dati di realtà scontati, impacchettati dentro un nome complesso, che per sua natura è inaccessibile alla confutazione.

CHE LE SANZIONI siano o meno una follia, in fondo, non è il punto di centrale, ciò che conta davvero è stato messo al sicuro dentro una presupposizione.
Un’opinione, se infilata dentro la struttura giusta, diventa Veritas. Così, sentendo l’espressione le vere vittime del razzismo, siamo condotti a considerare scontato che ce ne siano di finte. Nell’udire che la pacchia è finita, siamo prepotentemente obbligati a dare per scontato che la pacchia sia esistita davvero, e non sia durata poco.
D’altra parte, che i migranti si trovino in una situazione straordinariamente vantaggiosa (significato della parola pacchia) sarebbe un messaggio difficile da argomentare fuori da una presupposizione.

SE IL LINGUAGGIO VIOLENTO si fa normalità nell’era della comunicazione globale, resistere alla violenza diventa affare di tutti. Come? Dobbiamo immunizzarci, conoscere l’antigene per poterlo neutralizzare, sviluppare anticorpi alla violenza linguistica, rifiutarci di digerirla. Possiamo decidere di non passare oltre, di dire «Non esistono finte vittime del razzismo!». Ma, per riuscire, dobbiamo fare lo sforzo di fermare l’automatismo del ragionamento e la frenesia del flusso comunicativo, prendere il tempo necessario per estrarre l’informazione presupposta dalla cassaforte in cui è stata infilata e decidere – con libertà – se confermarla o meno.
Se l’uso-abuso efficace della lingua è la bestia, possiamo domarla. Non è semplice e non è veloce, quindi forse è inattuale, ma è importante. (Ri)appropriamoci della libertà di valutare in modo critico ciò che ascoltiamo, e usiamo il sapere come strumento di autodifesa quotidiano.

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Appuntamento 1 e 2 ottobre per il programma bolognese

Istigazione al razzismo e retorica della patria, attacco ai diritti civili, disprezzo delle diversità, squalificazione delle competenze, confronto politico ridotto a un «post». Due studentesse hanno chiesto alla loro Università – che per statuto è pubblica, autonoma, laica e pluralistica – di prendere la parola: di prendere posizione. Docenti e studenti, artisti e società civile si sono dati appuntamento a Bologna, in piazza Verdi, nei giorni 1 e 2 ottobre, per discutere insieme. Fra gli ospiti, Moni Ovadia, Sandro Mezzadra, Stefano Benni, Massimo Cacciari, Giovanna Cosenza, Caterina Mauri, con dottorande e dottorandi dell’Alma Mater, Europa. E saluto
in video della famiglia Regeni.