Presenza silenziosa ma di una importanza fondamentale per molti dei più importanti lavori cinematografici giapponesi degli ultimi cinquant’anni, il cameraman e direttore della fotografia Tamura Masaki si è spento lo scorso 23 maggio a 79 anni. La notizia è trapelata solo ieri attraverso collaboratori ed amici sui social network, mentre il funerale è già avvenuto in forma privata e non sono state rivelate ancora le cause della sua morte.

Tamura ha attraversato la storia dell’arcipelago e della settima arte giapponese fin dal 1968, il suo debutto dietro la macchina da presa, quando filmò la resistenza dei contadini di Sanrizuka contro la costruzione dell’aeroporto di Narita nei documentari della Ogawa Production, sette film fino al 1973. Proprio nello stesso anno debutta anche nel cinema di finzione girando per Toshiya Fujita Lady Snowblood, film che sarebbe diventato un culto anche in occidente soprattutto grazie alla glorificazione che ne fece Quentin Tarantino. Dell’anno successivo è il capolavoro di Kazuo Kuroki The Assassination of Ryoma, film storico che racconta gli ultimi tre giorni di vita di Ryoma Sakamoto, una delle persone più importanti per la restaurazione Meiji.             

Alla fine degli anni settanta ritorna a collaborare con la Ogawa Production e Ogawa Shinsuke, collettivo che nel frattempo si è trasferito nel nord del Giappone, a Yamagata, per filmare, in connubio con il luogo ed i suoi abitanti, una zona periferica del Sol Levante. Proprio qui Tamura comincia a sperimentare e studiare come filmare tutte le fasi della crescita delle piante del riso in time-lapse – filmati che visti ancora oggi hanno del miracoloso e rasentano l’artistico.

Proprio questa sua esperienza a contatto con i ritmi delle stagioni ed i vari cicli del tempo, che culminerà nel capolavoro Magino Village: a Tale del 1986, sarà fondamentale per il suo approccio alla fotografia e le sue collaborazioni cinematografiche durante gli anni ottanta. Fire Festival diretto da Mitsuo Yanagimachi nel 1985 continua in qualche modo questo discorso visivo, la potenza e bellezza della natura filmata da Tamura con tutte le sue (false) contraddizioni è una sorta di unicum per il periodo, così come è una sorta di eccezione e buco nero sarcastico sull’ossessione giapponese per il cibo Tampopo, che Tamura filma per Juzo Itami nello stesso anno.

Negli anni novanta, consciamente o meno, Tamura collabora quasi esclusivamente con le nuove voci del cinema giapponese: Aoyama Shinji su tutti, regista con cui lavora per vari film, su tutti vanno ricordati almeno lo splendido Eureka del 2001 e Eli Eli Lema Sabachtani di quattro anni successivo. Sono questi due lavori forse il punto di entrata perfetto per rendersi conto della grandezza di Tamura, si corona qui quello che è il tratto principale della sua estetica come direttore della fotografia e cameraman, quello cioè di riuscire a rappresentare, come pochi altri hanno saputo fare, il trascorrere ed il flusso del tempo.

Eureka ed alcune scene di Eli Eli Lama Sabachtani si collegano direttamente ai lunghi piani sequenza con cui Tamura e la Ogawa Production sperimentarono un nuovo linguaggio documentario nel 1973 in Narita – Heta Village. Questi «blocchi di tempo» registrato con cui catturò il tempo di un villaggio in cambiamento e sotto assedio risuonano non solo con lo «slow cinema» dei due film di Aoyama ma anche con i tempi apparentemente «morti» di un altro magistrale documentario, Self and Others, che girò per Sato Makoto nel 1999, dove emerge la sua qualità quasi alchemica di dare vita al tempo ed al paesaggio.
Con la morte di Tamura se ne va, davvero, una parte importantissima del cinema giapponese del dopoguerra.