Sergio Mattarella è pienamente cosciente della situazione creatasi in Parlamento dopo i colpi di mano del governo e della necessità di rimettere le cose in ordine. I due partiti che ieri sono saliti al Colle per lamentare i metodi brutali adoperati da Renzi sulla riforma istituzionale, Forza Italia e Sel, sono entrambi usciti dall’incontro con questa convinzione. Per Fi si è presentato al Quirinale solo il capo dei deputati, Brunetta. L’omologo al Senato, Romani, ha preferito passare la mano. «Meno di tre settimane fa gli abbiamo votato contro e adesso andiamo da lui?», si sarebbe sfogato in privato. Brunetta non si fa di questi problemi. Ha presentato al nuovo primo cittadino un documento in 25 punti (non passato al vaglio del gruppo che dirige) nel quale la riforma fino a ieri firmata anche da Berlusconi viene definita «non legittimata» e si chiede di «ripristinare un contesto di dialogo e rispetto». Dopo mezz’ora è uscito soddisfatto: «Mattarella ha auspicato che il dialogo riprenda e, conoscendolo, userà tutti gli strumenti previsti dalla Costituzione».

La delegazione di Sel, invece al gran completo con Vendola e i capigruppo Scotto e De Petris, è entrata subito dopo. Anche in questo caso le proteste per la tendenza ruvida del governo sono state puntuali, ma Vendola ha anche lamentato apertamente i continui tentativi di dividere il gruppo di Sel messi in opera da governo e non ha evitato commenti al vetriolo (peraltro sfondando una porta aperta) sulle dichiarazioni «improvvide e imbarazzanti» dei ministri sulla Libia. «Non vogliamo tirare il presidente per la giacca ma abbiamo sentito il dovere morale, prima che politico, di rivolgerci al garante della Costituzione».

Anche la delegazione di Sel, come Brunetta, ha riportato la precisa impressione che l’ospite sia deciso a intervenire, non solo sul fronte specifico della riforma istituzionale ma anche sull’abitudine di procedere con «un mix di decretazione d’urgenza e voto di fiducia», come lo ha definito Vendola. Anche in questo caso, il presidente non poteva che essere d’accordo, avendo nel suo discorso inaugurale denunciato con parole molto chiare proprio questo metodo.
Dunque Mattarella qualcosa certamente farà, ma senza mosse clamorose. Ha già fatto sapere, sin dal giorno della sua nomina, che punterà soprattutto sulla moral suasion, evitando per quanto possibile strappi o conflitti aperti. Tanto più in questo caso, dato che la riforma della Costituzione, a differenza delle leggi normali, non richiede la sua firma. Mattarella si muoverà, e probabilmente in parte lo ha già fatto, parlando con Matteo Renzi e con i presidenti delle camere, che sin qui hanno lasciato al governo mano libera. Forse non a caso proprio ieri la presidente della Camera Boldrini ha detto in una intervista che non si potrà procedere ulteriormente adoperando a man bassa la «tagliola» per stringere i tempi e strozzare il dibattito.
Più di questo Mattarella non può fare. Le cose potrebbero cambiare quando si arriverà alla legge elettorale, ma ci vorranno mesi. Renzi è convinto che dopo le regionali Berlusconi dovrà tornare all’ovile anche perché l’asse con la Lega vacillerà per il veto del Carroccio alle alleanze con l’Ncd. Dunque congelerà l’Italicum fino alle regionali e oltre. Se ne riparla in estate.

Gli altri due partiti d’opposizione incontreranno Mattarella nei prossimi giorni. Con l’M5S ci sarà Beppe Grillo. Salvini invece non intende accompagnare i suoi capigruppo: «Che ci vado a fare? A chiedergli il numero del parrucchiere?». Battute gratuite rispetto alle quali il Quirinale esprime «stupore», ricordando che l’incontro era stato richiesto dagli stessi leghisti.

Dal canto suo, Renzi ascolterà Mattarella, perché non può fare altro. Eviterà, nel prossimo passaggio della riforma alla Camera per il voto finale, l’8 marzo, l’atteggiamento super coatto che adora. Il bel gesto gli costerà pochissimo: il grosso del lavoro sporco è stato fatto. Sarà nel secondo passaggio parlamentare della riforma e soprattutto sulla legge elettorale che si vedrà quanto il duro di palazzo Chigi sia disposto a farsi «moralmente persuadere» dal capo dello Stato.