No, il presidente del consiglio europeo Van Rompuy e quello della commissione Barroso, ammiccando fra loro per chi doveva rispondere alla domanda sulle riforme di Renzi, non volevano ridere di lui, come Merkel e Sarkozy risero di Berlusconi nel 2011. E se i media italiani (per non dire di Grillo) hanno tutti capito il contrario è per un «un deliberato errore di interpretazione», dice in mattinata il portavoce di Van Rompuy (i due, aggiunge, volevano solo «coordinarsi su chi dovesse rispondere»). Come se il presidente del consiglio italiano non godesse di buona stampa, a casa sua.

Nella seconda e finale giornata di Bruxelles Renzi è stato impegnato in un colloquio proprio con il presidente Van Rompuy, dopo i 90 minuti di faccia a faccia con Barroso di giovedì. Anche in questo caso, le dichiarazioni ufficiali sono positive. Ma che il soggiorno belga per Renzi non sia stato un pranzo di gala lo testimonia lui stesso, nella smagliante conferenza stampa finale. Più che smentire gli eurosorrisi, Renzi risponde piccato: ricostruzioni «lontane dalla realtà» e tuttavia «se son contenti lo sono anch’io, ma il mio obiettivo è far sorridere le famiglie italiane».

Il presidente ripete tutto il repertorio dell’Italia Pride: il tema «centrale» dei colloqui sono state le riforme e non «gli zero virgola», non c’è «alcun rapporto conflittuale, abbiamo grandissima fiducia nelle istituzioni europee e un grande desiderio di investire nell’Europa che rappresenta il nostro futuro», «Siamo l’Italia, questo atteggiamento subalterno e supino di venire in Europa con il cappello in mano io non ce l’avrò mai».
Ma il bilancio non è, a tenersi cauti, brillante come la performance dinanzi ai cronisti. Il consiglio è interessato alle nostre riforme (e Angela Merkel persino «colpita»), e mancherebbe, ma Renzi deve giurare che «la posizione italiana non è cambiata ed è in linea di continuità con i governi che ci hanno preceduto». Letta, Monti e via scendendo. Altro che «l’Europa cambia verso», come gigioneggia entrando nell’ultimo colloquio. Ed è consolante sentirgli dire che «è una commissione ma non di esame», ma è un fatto che la sua tesi «più pil, meno debito» non ha commosso né Van Rompuy né Barroso, che a fine vertice avverte che «se c’è un paese che vuole cambiare le regole della governance economica può proporlo e vedere se passa. Ma credo che non sia questo il cammino». Respinto con perdite.

Non era una tesi rivoluzionaria, puntava a liberare gli «zero virgola» entro il limite del 3 per cento del rapporto deficit/pil «obiettivamente anacronistico», (che valgono nell’ordine di 6 miliardi); ma Barroso ha detto no, tra un complimento e l’altro alle riforme e al jobs act. Per completare il quadro, il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi (critico interessato di Renzi, a cui ieri ha intimato di «studiare» ancora) ha anche «sfatato» il clima cordiale con Angela Merkel: «Io ero alla cena e lei è molto austera nei nostri confronti: non è che ci abbia accolto a baci e abbracci, ha detto che non possiamo derogare dalle regole».

Così Renzi a domanda dritta «conferma l’impegno del fiscal compact». Si tratta di 50 miliardi, uno sproposito, 20 in più della spending review prevista di qui al 2016, a partire dal 2015. A meno di una crescita inaudita e non all’orizzonte. Renzi tornerà alla carica a luglio da presidente di turno della commissione, con la speranza (sua) che nel frattempo i socialisti e democratici abbiano vinto le europee. Ma le premesse sono queste.

Al premier italiano non resta che il «gigantesco» piano di riforme di casa: jobs act (ma già alla camera si alzano venti di guerra dall’interno del Pd contro la nuova precarizzazione dei contratti), Italicum e riforma del senato (a Palazzo Madama si prepara la contraerea), Titolo V. Soprattutto spending review, quella che il viceministro Morando ha definito «la madre di tutte le riforme, se salta lei salta tutto il castello». Renzi conferma il taglio degli stipendi dei manager (con buona pace dell’ad di Ferrovie Mauro Moretti, che doveva diventare ministro del lavoro ed ora si scaglia contro il tetto al principesco salario della sua categoria), conferma che non toccherà le pensioni, e invece userà la mannaia contro le istituzioni «che sono diventate un pedaggio». Anche qui non va tutto bene. Il gelo con il commissario Carlo Cottarelli resta: su certe cose Renzi non vuole tagliare, su altre vuole tagliare «di più e meglio», per esempio sono avvertiti gli amministrativi della polizia che sono «tre volte quelli di Israele».

Il viaggio a Bruxelles è finito, non benissimo, ieri Renzi è tornato a casa. Dove l’ora della verità arriverà presto: entro il 10 aprile verrà presentato il Def, il documento di programmazione economico-finanziara. Lì ci saranno scritte finalmente, nero su bianco, le scelte di Renzi. E stavolta non sarà la commissione europea, a dare i voti. Ma gli italiani, alle europee.