Il 13 aprile, la Direzione Generale delle Antichità e dei Musei della Siria (Dgam) ha diffuso un documento intitolato «The Road to Resurrecting Palmyra». Si tratta di una nota – rivolta soprattutto alla stampa estera – attraverso la quale il direttore Maamoun Abdulkarim chiarisce la linea programmatica del Dgam all’indomani della liberazione di Palmira da parte dell’esercito siriano e del contingente russo.

Il testo, consultabile sul web insiste sulla volontà degli archeologi siriani di agire in osservanza dei metodi scientifici, per porre rimedio alle distruzioni dell’Isis.

In particolare si annuncia un piano per i futuri restauri, i quali prevedono il riutilizzo di elementi originali dei monumenti danneggiati, nel rispetto della loro identità architettonica.

È questo il punto cruciale del documento, finalizzato a prendere le distanze da una serie di speculazioni riguardo la presunta ricostruzione di Palmira con tecnologie 3d e materiali moderni.

Tuttavia, il 19 aprile lo stesso Abdulkarim è volato a Londra per presenziare all’inaugurazione di una copia dell’Arco di Trionfo della cosiddetta Sposa del deserto – abbattuto dagli uomini del Califfo a inizio ottobre 2015 – realizzata dall’Istituto di archeologia Digitale (Ida) di Oxford in collaborazione con l’azienda toscana Tor Art. Il finto arco in scala 1:3, montato non casualmente nel cuore imperialista della capitale inglese all’incrocio degli assi celebrativi ottocenteschi che convergono a Trafalgar Square, è un feticcio senz’anima in stile Las Vegas.

Esposto per soli tre giorni all’ombra dell’ammiraglio Nelson e assemblabile come i mattoncini Lego, transiterà prossimamente nella lisergica Times Square a New York. In questa tournée pseudo-archeologica non poteva mancare un tappa nella svettante Dubai, già avvezza alle repliche a suon di petrodollari. Sebbene l’obiettivo dei promotori dell’iniziativa sia quello di «contribuire a preservare la storia di una regione che ha definito le tradizioni artistiche, letterarie, scientifiche e architettoniche del mondo», l’operazione finisce per diventare uno spettacolo incapace di trasmettere quei valori di memoria culturale che dovrebbero essere alla base di un simile progetto.

Così, mentre il sindaco di Londra Boris Johnson si faceva immortalare sotto il nuovo arco uscito in prezioso marmo egiziano dalla stampante 3d italiana D-shape, a Trafalgar Square si svolgeva una protesta per la liberazione di Bassel Khartabil, attivista siriano di origini arabo-palestinesi e sviluppatore di software open source.
Detenuto a Damasco dal marzo 2015 e poi trasferito in una località sconosciuta, Khartabil è il fondatore del «The New Palmyra Project», piattaforma informatica che aderisce alla strategia Creative Commons e si prefigge di realizzare un modello tridimensionale delle vestigia di Palmira, in parte già fruibile on-line. In Italia, anche il Cnr vuole offrire il suo contributo per la conservazione e la valorizzazione dell’antica città siriana con due differenti assi di ricerca.

L’Ibam (Istituto per i beni archeologici e monumentali), si concentrerà sull’aerofotografia archeologica e il telerilevamento da satellite per il monitoraggio multi-temporale delle evidenze antiche, allo scopo di valutare l’entità dei danni che queste hanno subito nel corso del conflitto e proporre una base documentaria per le attività di restauro.

L’Icvbc (Istituto per la conservazione e la valorizzazione dei beni culturali), che ha già preso parte al progetto Palmira dell’Università di Milano, si occuperà invece della classificazione dei materiali lapidei impiegati nell’architettura palmirena e l’identificazione delle cave di provenienza.

Una «corsa all’emergenza», quella della comunità scientifica internazionale, che se da una parte ha indubbiamente i suoi lati positivi poiché mette al servizio della disciplina archeologica l’apporto – utilissimo e ormai imprescindibile – delle nuove tecnologie, dall’altra sorvola sulla distruzione di intere città siriane a causa del conflitto e dimentica il massacro di un popolo che non ha più case e si muove, tra muri e fili spinati, in cerca di asilo.

Il doloroso contrasto tra l’interesse per le pietre antiche e l’indifferenza ai morti, già sollevatosi ogni volta che l’Isis ha colpito la Città carovaniera, è ora al suo apice.

Impegnarsi per la «risurrezione» di Palmira è giusto, perché il sito archeologico più cosmopolita al mondo appartiene alla storia universale. Ma nessun arco vale la vita di una persona e – con la guerra ancora in corso – è a ricostruire una strada di ritorno per gli abitanti di Tadmor, da sempre fieri custodi delle rovine dell’Oasi, che si dovrebbe pensare.