Gran momento per il fiume Hudson e i mezzi di trasporto. Negli Usa impazza Sully, il film di Eastwood sul pilota che è vi atterrato con il suo aereo salvando i passeggeri. Nel film in questione invece lo si costeggia lungo i binari della ferrovia. Sono quarantasette minuti infatti quelli che impiega il treno dalla stazione di Ardsley on Hudson, a Irvington, per percorrere poco meno di trentaquattro chilometri e arrivare a Grand Central Station a New York. Una velocità che è sufficiente a La ragazza del treno, Rachel per vedere la sua vecchia casa, ora abitata dall’ex marito, Tom, una nuova moglie, Anna, e una bimba piccola, facendola sussultare ogni volta perché quella casa lei l’aveva comperata con lui e arredata da sola.

Come se non bastasse due case più in là c’è un’altra coppia su cui Rachel proietta l’immagine della perfetta felicità coniugale, sono Scott e Megan. Ora, ci sono alcune cose che dobbiamo sapere di Rachel. Il suo matrimonio è saltato perché non potendo avere figli lei si è data al biberon, a base di vodka. Un bibe che non ha più abbandonato e che le crea qualche contrattempo. Per esempio ha perso anche il lavoro, nonostante si ostini a prendere il treno tutti i giorni. Inoltre si ritrova spesso ammaccata senza ricordarsi minimamente il perché.

Insomma Rachel non è messa bene già di suo, quando poi vede dal finestrino che la magnifica Anna è teneramente abbracciata a un uomo che non è suo marito, il mondo le crolla addosso. Vabbé, è fatta così. Quando poi Anna scompare, per essere ritrovata cadavere nel bosco la faccenda per lei si complica ancora di più. La famiglia del suo ex marito la ritiene una stalker, non senza ragione. Lei si sente in dovere di dire al vedovo che la moglie lo tradiva. Conduce anche una sorta di fumosa indagine con lo psicanalista della scomparsa che sembrerebbe essere l’uomo dell’abbraccio. Nessuno però dà retta a una donna che succhia interi thermos alcolici e che ha vuoti di memoria colossali. Neppure gli sceneggiatori sono in grado di crederle, infatti devono saltabeccare avanti e indietro nel tempo per fare affiorare qualche brandello di realtà che aiuti a districare la matassa inutilmente aggrovigliata, perché poi tutto si risolve piuttosto convenzionalmente.

Tratto dal romanzo omonimo di Paula Hawkins (milioni di copie nel mondo, di cui molte anche in Italia con edizione Piemme) sceneggiato da Erin Cressida Wilson (aveva debuttato sceneggiando un folgorante Secretary, poi era rientrata nei ranghi con Fur – Ritratto immaginario di Diane Arbus), il racconto, trasportato dall’Inghilterra agli Stati uniti, è stato affidato alla regia di Tate Taylor (The Help e La storia di James Brown). Per questa storia si sono sprecati i riferimenti a Alfred Hitchcock, ma ci sono solo un paio di attinenze, le donne bionde e quella per cui James Stewart attraverso La finestra sul cortile intuiva un omicidio, qui invece Rachel dal finestrino sul cortiletto costruisce un mondo che non corrisponde alla realtà. Realtà che vede le tre figure femminili in qualche modo accomunate a fronte di figure maschili volutamente ambigue.

Forse perché si voleva fare un film «dalla parte delle donne», dare una visione al femminile della vita di provincia. Ma tutto viene invece giocato sulla faccia un po’ spenta di Rachel-Emily Blunt che essendo una beona ripudiata appare struccata e con l’occhio a mezz’asta. Mentre Anna-Rebecca Ferguson è orribilmente radiosa nel suo essere mamma che ha tutta la giornata occupata dalla spesa, inoltre la seducente Megan-Haley Bennett vista al ralenti, e non al volo dal treno, è preda di angosce prepotenti.

Tom-Justin Theroux è lo sciupafemmine incauto, mentre Scott-Luke Evans è un marito giuggiolone e il dottor Abdic-Edgar Ramirez dovrebbe rifare gli esami di psicologia. Anche la polizia di Ardsley on Hudson sembra inadeguata, non si schiodano neppure con la chiamata al 911, eppure stanno indagando su un omicidio. Dovrebbero imparare da Marge Gunderson, l’eroina dei Coen.