Le risorse straordinarie stanziate per la sanità e la scuola, a seguito dell’emergenza Covid-19, rimediano in parte a una lunga stagione di tagli. C’è da dire, però, che l’ingente mole di stanziamenti in atto o in arrivo tramite il Mes e il Recovery fund non può considerarsi risolutiva di un problema che è strutturale e richiede l’individuazione di canali stabili di finanziamento.

Le proteste degli insegnanti e dei lavoratori dello spettacolo vanno prese molto sul serio. Reclamano risposte sostanziali. A questo proposito ci può essere d’aiuto, per la sua estrema attualità, la teoria sulla «malattia dei costi», elaborata negli anni sessanta del secolo scorso da un grande studioso di microeconomia, William J. Baumol.

Vi sono attività, afferma Baumol, caratterizzate da una scarsa (o nulla) crescita della produttività e il cui costo relativo sale soprattutto per gli effetti determinati dall’incremento della produttività nei settori dinamici dell’economia.

Nelle attività artistiche o di cura, ad esempio, l’impegno umano è insostituibile e difficilmente si può ottenere una contrazione dei costi per mezzo del progresso tecnico. Un’ora di arpeggio oggi produce altrettanto Mozart di quando lui era vivo, ma un’ora di lavoro produce cento volte più orologi che all’epoca di Mozart. Ciò significa che un concerto di Mozart costa cento volte più orologi che in quell’epoca.

Quindi, sostiene Baumol, il settore dinamico dell’economia determina i costi del resto del sistema produttivo, a meno di mantenere costanti i salari nel settore stagnante, eventualità questa certamente non proponibile.

Per un lungo periodo di tempo, nonostante i costi crescenti della sanità, del sistema educativo o delle attività artistiche, la nostra società ha potuto permettersi più educazione, più servizi sanitari, più attività culturali perché la produttività globale crescente ha consentito di sostenere le maggiori spese di questi settori.

I problemi finanziari sono nati quando i governi centrali e gli amministratori locali hanno cominciato a ridurre le risorse destinate al settore dei servizi sulla base della dinamica della produttività «interna» trascurando l’effetto indotto derivante dal resto dell’economia. Con la conseguenza di non riuscire a mantenere gli standard dei servizi richiesti dalla popolazione, anzi di rinunciare al loro miglioramento, che avrebbe al contrario richiesto una crescente quota di forza lavoro e di risorse impiegate.

Baumol fa, dunque, una critica spietata alle soluzioni basate sull’applicazione di criteri di gestione efficentisti e aziendali a settori in cui la crescita dei costi è incomprimibile. Il problema, non solo in Italia, è di sconfiggere ideologie che ci portiamo dietro dagli anni ottanta, da quando cioè è cominciato a soffiare forte il vento thatcheriano e reaganiano.

Il modello del «morbo di Baumol» aiuta a spiegare l’andamento crescente e la natura dei costi di taluni servizi. In alcuni casi, per esempio, la produttività per addetto è addirittura diminuita, come nel caso delle scuole materne ed elementari per le quali si è passati da uno a più insegnanti per classe. Anche nella sanità la produttività è destinata a ridursi per le misure anti-Covid.

Senza il riconoscimento del carattere particolare di alcuni servizi non se ne esce. Se questa interpretazione, basata sulla costatazione della scarsa (o nulla) crescita di produttività in attività di vitale importanza è giusta, la soluzione consiste nell’assegnare parte della crescita della produttività ottenuta nel settore dinamico dell’economia ai servizi caratterizzati da produttività stagnante.

Ci possiamo insomma permettere il costo dei «servizi stagnanti», cioè di tutte quelle attività che presuppongono lavoro manuale e attenzione personale, di quei settori che oppongono resistenza alla riduzione della forza lavoro per unità di prodotto e, in alcuni, implicano processi di produzione intrinsecamente non standardizzabili.

Insomma, trasferire piccole quantità di risorse dai settori a produttività crescente in quelli della produzione degli stagnant services è la condizione per avere più cure sanitarie, più assistenza all’infanzia e alla terza e quarta età, più manutenzione del tessuto urbano, più cultura e arte.

Rispetto ai tempi in cui Baumol ha studiato il «morbo dei costi», sono aumentati, da un lato, i settori ad alta tecnologia e ad alta produttività (premiati fiscalmente) e, dall’altro, sono nati nuovi imperi finanziari e digitali, che hanno determinato una concentrazione di ricchezza mai vista prima e che, di fatto, non pagano imposte nei paesi in cui producono utili giganteschi.

Forse è il momento giusto per determinare, tramite la leva fiscale, un adeguato trasferimento di risorse anche da quei monopoli digitali che dominano la finanza e il mercato globale, destinandolo a settori e attività da cui, altrimenti, la maggioranza della popolazione, potrebbe essere esclusa.