Tra gli aspetti che segnano una politica della filosofia – qui intesa nel senso oggettivo del genitivo: ossia come il modo per mezzo del quale si conducono operazioni editoriali, si appropriano o si piegano a fini eterogenei testi e autori, si istituzionalizzano ordini del discorso o si inventano, pretendendo di restituirle come oggettive, le continuità della storia del pensiero – va annoverata anche l’invenzione di filtri o di forme di mediazione tra il lettore e l’opera. Di una politica della filosofia nel senso soggettivo del genitivo – e cioè come pratica di responsabilità politica della filosofia, non parleremo in questa occasione, pur rappresentando l’altro lato del problema.

Tra gli strumenti dei quali la prima, intesa come operazione sulla filosofia, si dota, vanno senz’altro segnalate le prefazioni, oggi apparentemente indispensabili, che sono un’invenzione del tutto recente, per secoli non utilizzata, e della quale può essere tracciata la storia.
Un libro di Cristina Cassina (Soglie nel tempo. Storie di prefazioni ai classici del pensiero politico moderno, pp. 196, euro 16, Rubbettino) si fa carico di aprire un campo di ricerca in questa direzione. Altri autori (Antony Grafton, ad esempio) hanno posto a tema della storia dell’editoria (e dei suoi impliciti) la storia delle note a pié di pagina. Qui, in questione viene affrontato invece il nesso tra la funzione esplicativa, didattica, introduttiva della prefazione e il suo imporsi, come strumento disciplinare e formativo del lettore/elettore, in parallelo all’espandersi della cittadinanza politica.

Un problema di ricezione

È stato un allievo di Roland Barthes, Gérard Genette, a produrre il primo tentativo di fornire una teoria del paratesto, ovvero di tutti quei «segnali» accessori, prima o poi riqualificati come indispensabili nelle politiche editoriali, che servono a procurare una cornice al testo offrendolo come un prodotto orientato e chiuso a chi si disponga a leggerlo. Titoli, sottotitoli, avvertenze, prefazioni, postfazioni, fascette, note, epigrafi definiscono, nella loro eterogeneità, un paratesto che marca la soglia che pone in comunicazione il testo e il lettore. Quella che Genette chiama «istanza prefativa», qualcosa di molto diverso dagli accessus medievali che venivano redatti per facilitare l’avvicinamento degli studenti ai classici e altrettanto diverso dalle epistole dedicatorie presenti in molte opere politiche della prima modernità, si segnala per la particolarità della sua funzione rispetto alla serie di elementi che si vengono aggiungendo al testo. Tanto più, quando il prefatore non è lo stesso autore che lo ha redatto. Come viene perciò disponendosi tra autore e lettore quel «vetro prefativo» (lente per accorciare le distanze, filtro che ne piega il senso, schermo che lo opacizza per mettere in primo piano il prefatore e l’operazione di appropriazione che esso viene conducendo…) che nella modernità emerge come elemento indispensabile per fissare un classico alla storicità materiale della sua ricezione?

I casi studiati da Cassina sono molto differenti l’uno dall’altro e tuttavia convergono nel porre in evidenza alcuni elementi di questa operazione. Vi sono prefazioni che agiscono come lenti di ingrandimento e indicatori di prossimità quando non di complicità: Engels prefatore della traduzione inglese del primo libro del Capitale (una grande rivendicazione «comunitaria», in fondo, della famiglia allargata inglese di Marx), Bryce che introduce Ostrogorski, Sartre che lo fa con Fanon, installandosi in modo pressoché permanente a sentinella della ricezione de I dannati della terra attraverso le molte ristampe e traduzioni. E vi sono prefazioni che, invece, agiscono come cannocchiali, lavorando al superamento di una distanza (temporale o accademica), compensando traduzioni tardive e aggiornando e «problematizzando» a partire da questioni che non sono quelle del testo le ragioni della sua attualità. Questo, nella ricognizione di Cassina il destino delle Origini del totalitarismo di Hannah Arendt, ad esempio. Ma anche dell’«invenzione» lamennaisiana di La Boétie, delle differenti prefazioni alla Democrazia in America di Tocqueville (vicenda, questa, particolarmente importante per comprendere il contraddittorio percorso della ricezione di quest’ultimo), di Mill.

Ma è al fascismo come Grande Prefatore che molte pagine del libro sono dedicate. Mussolini introduce la Rivolta ideale di Oriani (e stende, o pretende di stendere, come faranno anche Craxi e Berlusconi una prefazione al Principe di Machiavelli. Su Berlusconi prefatore e sui suoi guai con Luigi Firpo sarebbe impietoso tornare), altri volumi dell’Opera Omnia di Oriani, edizione che viene condotta ai fini di retroproiettare una «cultura» del fascismo attraverso la nobilitazione dei suoi predecessori, vedranno le prefazioni di Giovanni Papini, Mario Missiroli, Luigi Federzoni, Giovanni Gentile.

Giorgio Candeloro, allievo di Gentile, pubblica una traduzione di Tocqueville che orienta pesantemente la sua interpretazione: Tocqueville come colui che prevede la crisi del liberalismo, ma che rispetto ad essa non ha gli strumenti per intervenire dato che i concetti di individuo e Stato che recepisce dalla tradizione liberale, gli stessi concetti sui quali, pesantemente risemantizzati, lavora l’impianto corporativo fascista, non permettono di rispondere ad essa. Giovanni Preziosi e Julius Evola – pur perfettamente a conoscenza del fatto si tratti di un falso – introducono i Protocolli dei Savi di Sion. Ma è tutto un florilegio di operazioni paratestuali quello messo in opera in epoca fascista: prefazioni, introduzioni, edizioni servono, all’incrocio tra politica culturale e propaganda pura, a costruire il sistema di mediazioni in grado di disciplinare la ricezione dei classici del pensiero politico, a formare e orientare le scelte e le preferenze del pubblico colto, a produrre un Pantheon autoriale al quale vincolare il fascismo come al suo patrimonio e alla sua tradizione e sul quale fare leva per inventarla.

La materialità del pensiero

Cassina si sofferma infine, quale passaggio alla contemporaneità, sulle edizioni italiane di Carl Schmitt. Le prime approntate in epoca fascista e poi diffuse a partire dagli anni Settanta. Di nuovo, le prefazioni (oltre alle scelte dei testi da tradurre) marcano importanti passaggi della ricezione e producono effetti di orientamento anticipatorio nel pubblico. Compaiono, non solo nelle edizioni di Schmitt, ma anche in altri classici, postfazioni che, nella forma di un commento che rinuncia a misurarsi all’altezza dell’autore il cui testo si limitano ad accompagnare, determinano la comparsa di elementi paratestuali di tipo nuovo. Qui il libro si ferma. E tuttavia il perimetro che con esso è stato tracciato, cercando di fissare le basi di un metodo, permette di immaginare altri percorsi per affrontare, incarnandola negli effetti che la attraversano, la materialità, di volta in volta singolare, della storia del pensiero.