Quasi a contraddire la sua immagine di regista «per le masse», l’autobiografia attraversa in modo esplicito gran parte dell’opera di Steven Spielberg, a partire dal road movie giovanile, Sugarland Express, punteggiandola, come uno scrapbook, di istantanee di famiglia su temi ricorrenti – la rottura tra i genitori, l’abbandono, la fuga nei mondi dell’immaginazione, l’amore incondizionato per la madre, la solitudine infantile, il rapporto distante con il papà. A volte è più esplicita, come in ET, Incontri ravvicinati del terzo tipo e A.I., il magnifico Pinocchio secondo Spielberg/Kubrick; a volte nascosta sotto false spoglie, come nell’adattamento da Ballard L’impero del sole. Sempre in dissonanza, qui con lo stereotipo secondo cui il cinema spielberghiano è edulcorato e sentimentale, si tratta di un’autobiografia striata di malinconico, con momenti dolorosissimi (la scena in cui la mamma lascia il bambino robot in A.I.; l’ostinazione surreale con cui Lou Jean/Goldie Hawn cerca di tenere insieme la sua famiglia in Sugarland Express, l’addio di Elliot a ET…).
Uscito questo weekend nelle sale Usa (in Italia il 22 dicembre) The Fabelmans ricompone il puzzle di quelle istantanee in chiave lineare, aggiungendo una dimensione più letterale allo slancio biografico originario.

ALLA SCENEGGIATURA non è Spielberg (che aveva invece scritto Incontri ravvicinati e A.I.) ma Tony Kushner, l’autore/drammaturgo ebreo newyorkese, che finora ha meglio sposato sulla carta le passioni e ossessioni del regista. A seguire le collaborazioni su Munich, Lincoln e West Side Story, la sceneggiatura di The Fabelmans è il frutto di una serie di conversazioni tra i due, via zoom, dopo che Spielberg, durante la pandemia, aveva deciso di raccontare la storia di quello che ha definito il momento «formativo» della sua vita, tra i sette e i sedici anni.La sceneggiatura è di Tony Kushner, scritta dopo diversi incontri su zoom durante il lockdownIl film inizia nel 1952, mentre i Fabelmans – una famiglia ebraica del New Jersey, con echi da romanzo di Philip Roth- si preparano per portare il figlio Sammy (Meteo Zoryn Francis Deford da piccolo; Gabriel LaBelle quando cresce) al cinema. Mitzi (Michelle Williams), promotrice dell’idea, anticipa che il bambino sarà entusiasta, mentre suo marito Burt (Paul Dano) pensa esattamente l’opposto e preferirebbe non uscire in una sera freddissima. Quei sentimenti contrastanti – l’entusiasmo infantile di lei e lo scetticismo schivo del marito – li accompagnano nel viaggio in macchina e diventeranno, in un certo senso, uno dei leitmotiv del film. Sammy non manifesta inclinazioni particolari né in un senso né in un altro, fino a che sullo schermo, davanti ai suoi occhi, non esplode il clamoroso disastro ferroviario inscenato da Cecille B. De Mille (e citato da J.J. Abrams in Super8, con il doppio senso dell’omaggio a Spielberg) in The Greatest Show on Earth. Da quella scena, il bambino non si riprenderà più.

Steven Spielberg
Faccio una distinzione: il cinema si fruisce, anzi si gode solo all’interno delle sale cinematografiche, mentre i film si possono vedere anche in streaming Il passo successivo non è tornare al cinema (magari per vedere Il grande cielo di Howard Hawks, Park Row di Samuel Fuller, il thriller da guerra fredda Invasion USA o Duello al Rio d’argento di Don Siegel, tutti usciti lo stesso anno) ma quello di ricostruire lo spettacolare deragliamento di De Mille con il trenino nuovo di zecca regalatogli da papà. E poi…di filmarlo con la sua 8mm. Pur iniziando davanti a uno schermo, The Fabelmans prende infatti una direzione diversa da tutti i memoir dei registi della Nuova Hollywood, e della generazione successiva (Tarantino, Abrams), in cui l’esperienza della visione è centrale – come in Hugo Cabaret, Matinée, Un lupo mannaro americano a Londra…perché Sammy non viene risucchiato dal raggio di luce del proiettore nel mondo fantastico dei film che guarda ma, fin dall’inizio, interpreta il fare cinema come un modo di controllare la realtà, anche quella più imprevedibile, come un incidente ferroviario. Complice la mamma, artista che ha rinunciato a una carriera al pianoforte per badare ai bambini, e con il riluttante aiuto di papà ingegnere, che gli regala una Super8, Sammy diventa inseparabile da quel terzo occhio, che lo segue fedele negli spostamenti famigliari determinati dagli avanzamenti della carriera informatica di Burt (siamo all’alba dei computer) prima in Arizona e poi in California.

PER SAMMY filmare non è tanto catturare la realtà, quanto costruirla – western, film di guerra, di rapina – sempre più elaborati e spettacolari, fino al beach movie con cui, negli anni del liceo e armato finalmente di una Harriflex, si conquisterà, manipolandoli, il rispetto dei jocks antisemiti e, pur essendo un nerd, l’interesse delle ragazzine. Ma il mondo che, attraverso l’obbiettivo, si fa cinema non è sempre controllabile. Anzi. Sammy avrà la sua lezione più dura nelle scene che stanno al cuore di The Fabelmans, quando le immagini catturate nel suo girato gli rivelano cose che non avrebbe voluto vedere, o sapere. L’elemento scatenante è un picnic in Arizona, durante il quale Mitzi improvvisa una strana danza, come se fosse una ninfa del bosco, un po’ meravigliosa un po’ ridicola.

Sempre pronta a giocare, a incoraggiare il temperamento artistico del figlio e a proteggere misteriosamente l’amico di famiglia che i bambini chiamano zio (Seth Rogen) e che segue i Fabelmans a ogni tappa, è Mitzi, insieme al cinema, l’altro oggetto delle passioni di Sammy, e del film. Che è infatti anche un omaggio alle affinità elettive tra Spielberg e sua madre Leah (la cui pettinatura è replicata per Michelle Williams). Candido al punto di essere meno patinato, più spigoloso, quasi farraginoso a tratti, della materia cinema a cui Spielberg ci ha abituato, The Fabelmans è un film profondamente affascinante, anche dal punto di vista teorico (e uno vorrebbe veramente vedere le registrazioni degli zoom tra lui e Kushner). Apertosi con DeMille, chiude – in grande – con John Ford, che il regista incontrò a sedici anni.