Nel 2002 Peter Mullan vinse il leone d’oro della Mostra veneziana con Magdalene, il film che raccontava le angherie che le suore cattoliche infliggevano alle giovani «peccatrici» irlandesi recluse nei loro conventi. Quest’anno Stephen Frears è andato a Venezia per raccontare la storia, vera, di una di quelle ragazze: Philomena, tornando ingiustamente senza un premio) se non quello a Steve Coogan per la sceneggiatura).

La storia inizia nel 1952 quando una ragazza sempliciotta si fece «tirar giù le mutandine» da un ragazzo divertente e bellissimo. Scoprendo il sesso «che era così bello che non poteva non essere peccato».

Ripudiata dal padre, mamma era morta, Philomena viene rinchiusa in uno di quei conventi-prigione dove partorisce un bimbo e per riscattarsi deve lavorare, gratis, per quattro anni, domeniche comprese, perché le regole del santificare le feste lì non valgono. E il piccolo Anthony le viene strappato, venduto a una ricca famiglia americana. Ora Phil è una donna anziana, sposata e in preda a un rimpianto: non ha mai raccontato a nessuno quella vicenda. E il giorno del cinquantesimo compleanno di quel figlio perduto decide di volerlo ritrovare. Viene coinvolto un ex giornalista Bbc e portavoce governativo scaricato in nome della realpolitik (Martin Sixsmith che ha raccontato tutto in un libro). Lui non vuole scrivere di casi umani, dice «sono storie di persone stolide, vulnerabili e ignoranti» rivolte ai loro omologhi. Ma è disoccupato, una rivista è interessata e decide di dare una mano a se stesso e alla sempliciotta che non sa cogliere alcuna ironia. Inizia così un viaggio tra l’intellettuale spocchioso e la donna ricca solo di umanità e di fede, cattolica, nonostante tutto.

Ci sono film che non hanno alcuna intenzione di essere innovativi in termini di linguaggio. Non hanno bisogno di sperimentazioni, si basano su fatti concreti: una storia talmente ricca da sembrare inventata, due attori in stato di grazia (Judi Dench e Steve Coogan, anche sceneggiatore con Jeff Pope, nomen omen, e produttore) una sceneggiatura che bilancia magnificamente la drammaticità del racconto con dialoghi cesellati (l’ingenua Phil scopre che il figlio era gay quando in una foto lo vede con indosso una salopette) e un ritmo da azione filmica, molto più dirompente di tanti film d’azione. Così succede che Philomena si riveli un autentico trionfo, facendo più di un pensierino agli Oscar. Sarebbe un buon riscatto per Stephen Frears, geniaccio troppo spesso snobbato dalla critica più spocchiosa e da giurie distratte. Anche perché Philomena non è solo un fantastico racconto di vita vissuta che vede coinvolti Jane Russell, Ronald Reagan e il dio dei cattolici, ma un confronto intenso e ricco di implicazioni tra un intellettuale abituato a muoversi nei piani alti della vita senza davvero accorgersi di quel che succede là sotto e una persona vera capace di telefonare al suo «socio» per chiedergli se ha bisogno di un accappatoio perché nel lussuoso albergo dove la rivista li ha alloggiati gliene hanno messi due.

Stephen Frears si è augurato che il papa possa vedere il suo film, ecco, sarebbe bello che succedesse e senza voler dare la croce addosso a nessuno, facesse qualche riflessione su quanta cattiveria inutilmente punitiva sia stata messa in atto da rappresentanti del mondo cattolico, in epoche non poi così remote.