Basboosa aveva 26 anni e viveva in un villaggio a pochi chilometri da Sidi Bouzid, un piccolo paese nel centro della Tunisia. In quel villaggio, dov’era nato e cresciuto, Basboosa aveva perso il padre, per un attacco cardiaco, quando aveva solo tre anni.

A dieci anni comincia a svolgere diversi lavori come venditore ambulante per mantenere la famiglia e a vent’anni lascia la scuola senza diplomarsi, provando a cercare un lavoro stabile. Riceve solo rifiuti.

Come venditore ambulante il guadagno è scarso ma Basboosa, con la sua piccola carriola di frutta e verdura, continua a sperare di potersi mettere in proprio. Non c’è giorno in cui non subisca le molestie da parte di una polizia corrotta e repressiva.

La mattina del 17 dicembre 2010, come tutti i giorni, prende la sua merce ma per l’ennesima volta gli viene confiscata, con la scusa che non possedeva i permessi necessari per svolgere la sua attività. Stanco e furente dell’ennesima umiliazione, Basboosa si reca all’ufficio del governatore locale, ma nessuno lo riceve.

Frustrato e amareggiato dalla violenza che subisce da sempre, Basboosa acquista una latta di benzina. Ritorna davanti all’ufficio del governatorato e se la cosparge addosso urlando «Come credi che possa guadagnarmi da vivere?». Accende un fiammifero e il suo corpo viene avvolto dalle fiamme.

Basboosa, noto a tutti come Mohammed Tarek Bouazizi, morirà il 4 gennaio 2011. Con il suo atto dimostrativo ed estremo aveva voluto denunciare pubblicamente il sistema di potere corrotto e repressivo.

Di qui la spinta dei giovani a togliere dalla propria bocca quel bavaglio che troppo a lungo era stato loro imposto: nei giorni successivi all’immolazione del loro martire, il popolo tunisino rivendicherà il diritto a non vivere più la paura che aleggiava nel paese.

Quello che è accaduto nel dicembre 2010 è frutto del percorso storico della Tunisia. Nel 1987, il generale Zine el Abidine Ben Alì prende il potere attraverso un colpo di Stato «medico» che sembra rappresentare uno spiraglio di luce.

Gli ultimi ombrosi anni della presidenza di Habib Bourguiba, al potere dal 1957, erano stati contrassegnati dalla svolta autoritaria del regime e l’arrivo di Ben Ali appare come un nuovo inizio. Attraverso lo slogan «changement!», si parla di pluralismo politico, elezioni, democrazia; il paese sembra vivere in uno stato di effervescenza collettiva.

Ma Ben Alì, ben presto, adottando una politica al contenimento di un islamismo crescente, comincia a operare una forte repressione nei confronti di chiunque possa opporsi al suo potere.

Nonostante, il regime abbia negli anni divulgato a livello internazionale un récit de fiction con la complicità di certe democrazie occidentali, rivela sempre più una torsione autoritaria e repressiva che scatena, in seno alla società civile, quell’insofferenza che spingerà il paese a liberarsi dal dittatore.

E saranno i giovani, esasperati, in seguito al gesto di Basboosa, a dare inizio alla loro ribellione sgretolando l’immagine edulcorata della Tunisia diffusa fino ad allora. Inizia la rivolta: ad accendere le masse non è un’ideologia religiosa o politica, ma un «urlo» contro la dittatura, che verrà annullata quel 14 gennaio 2011, quando il dittatore Ben Alì, viene costretto a lasciare il paese.

Da quel giorno la Tunisia ha iniziato un percorso di democratizzazione non privo di difficoltà. Si è passati attraverso le forti tensioni che hanno animato i lavori della commissione costituente, gli attentati politici del 2013 in cui hanno perso la vita Choukri Belaid e Mohammed Brahmi, il progetto di destabilizzazione di Da’sh (Isis) che ha avuto inizio tramite un reclutamento su larga scala di adepti – tanto che la Tunisia è arrivata a raggiungere il triste primato di «esportatore di jihadisti» verso Siria e Iraq- e il profondo malessere a causa della crisi economica che sembra non concludersi.

Tuttavia, il processo di nation building che la Tunisia ha avviato all’indomani della rivolta è apparso più efficace e meno travagliato rispetto agli sviluppi, anche drammatici, verificatasi nella regione, in Libia come in Egitto.

L’affermazione del partito islamico Ennahda, premiato dagli elettori tunisini nell’ottobre 2011 per l’estraneità e l’opposizione alla corruzione del passato regime, aveva indubbiamente prodotto un certo sconcerto nel paese da sempre considerato «culturalmente secolare», mettendo in allerta il fronte laico della società civile tunisina.

Nonostante il traguardo raggiunto della Costituzione nel 2014, Ennahda cominciava a perdere progressivamente popolarità. I tunisini avevano confidato nella promessa di una lotta alle disparità sociali attraverso politiche di welfare. La promessa è stata disattesa e la Tunisia alle elezioni legislative del 2014 ha scelto il partito secolare Nidaa Tounes, a scapito di Ennahda.

L’alternanza politica che ha accompagnato i dieci anni di transizione ha visto un ulteriore cambiamento di rotta nell’ottobre 2019 con l’elezione plebiscitaria di Kais Saied, che non apparteneva a nessuno degli schieramenti.

Un voto che ha premiato un candidato anti-establishement, che ha condotto la campagna elettorale contro la corruzione e il sistema politico tunisino conquistando il consenso di molti, soprattutto nelle periferie e nell’entroterra, anche se il suo atteggiamento conservatore ha intimidito una parte del paese. Ma la forza, per chi conosce la Tunisia, risiede in chi è stato il vero protagonista: la società civile che, sempre vigile e attenta, si è mobilitata dando quello slancio necessario per la costruzione della democrazia.

Questo quadro del paese nordafricano ha portato molti analisti a definire la Tunisia un’eccezione. Per chi scrive, la Tunisia può essere certamente considerata un’eccezione rispetto agli altri Paesi della regione, ma la sua peculiarità non è frutto degli eventi attuali, bensì si tratta più propriamente di una continuità rispetto alla sua storia oltre al carattere transculturale che la contraddistingue da sempre.

Tuttavia, oggi è indiscutibile che il processo di transizione democratica riveli alcune fragilità. L’emergenza economica, anche a causa della pandemia da Covid-19, può produrre conseguenze complesse non solo per il paese ma anche nel quadro regionale e internazionale. Il fronte libico, la complessità algerina, le migrazioni e il timore di una sospensione del processo democratico dovrebbero spingere l’Europa e i paesi partner a fornire un serio aiuto economico.

Se non ci si mobilita per sostenere la Tunisia nel suo consolidamento, potrebbe sospendersi un processo che ha prospettive rilevanti per il futuro dell’intera regione. La società civile tunisina non può restare sola e il gesto di Basboosa non deve e non può restare vano.

*Docente di storia e istituzioni dell’Africa università Roma La Sapienza