Nell’interno claustrofobico di un appartamento parigino, il soffitto spiovente incombe sulle nostre teste. Spinti verso un angolo della stanza, al cospetto di una libreria stracolma, ci sentiamo aggrediti dalla quantità e varietà di oggetti.

I dorsi dei libri, gialli come il burro ma affilati come coltelli, sembrano tenerci a debita distanza. Poco alla volta, ormai abituati alla penombra, ci scopriamo osservati da una moltitudine di volti. Uno in particolare, nonostante gli occhi vuoti, ci fa sobbalzare; sembra guidare l’esercito di sguardi che si posa su di noi.

Appartiene a una statua lignea, dai contorni marcati e dalla bocca tumida: un feticcio africano con il corpo infilzato da sottili e acuminate lame metalliche. Abbiamo varcato la soglia di un luogo magico, di cui non comprendiamo le leggi, ma verso il quale avvertiamo di dover mostrare deferenza.

Ci troviamo nell’ultimo appartamento in cui visse Guillaume Apollinaire, al 202 di boulevard Saint-Germain. Di questo affascinante luogo che non esiste più – vittima di una dispersione avvenuta al principio degli anni novanta del secolo scorso, dopo la morte della vedova Jacqueline – restano un film-reportage, gli scatti fotografici di René-Jacques e le molte testimonianze di chi ebbe modo di visitarlo. Nelle sue labirintiche stanze – l’abitazione è rivelatrice di chi la abita, sosteneva Apollinaire – la proliferazione di libri, opere d’arte, reliquie, sculture extra-europee e marionette è indice di un complesso universo psichico.

Ecco dunque gli occhi vuoti di una statua proveniente dalla zona costiera del Congo, dove il fiume Zaire sfocia nell’oceano Atlantico. Conosciuta comunemente come «feticcio dai chiodi», la statua nkisi nkonde, opera di maestranze Yombe o Woyo, si mostra in tutta la sua vendicativa ieraticità.

Non sappiamo chi l’abbia scolpita, né chi ne abbia trafitto il corpo. Alta quasi un metro, la scultura, un tempo tra le più celebri della raccolta di arte africana di Apollinaire, è ora conservata al Centre Pompidou.

I feticci nkisi furono demonizzati e oggetto di iconoclastia sin dai tempi della prima evangelizzazione del Congo, nel XV secolo. Gli europei – così come è accaduto a noi, nell’appartamento di Apollinaire – tremarono di fronte alla loro violenta immagine e finirono per considerarli strumento di sortilegi.

All’opposto, erano una risorsa per la pace sociale: infaticabili cacciatori di ingiustizie, servivano semmai a compensare offese e iniquità. Erano lottatori con le mani alle anche e i piedi ben piantati al suolo. Ogni volta che un chiodo trapassava il corpo di un nkisi, la sua carica magica, custodita nell’addome, si attivava per consentirgli di valicare il confine tra mondo terreno e ultraterreno. Nonostante i danni evidenti dell’esemplare appartenuto ad Apollinaire – la fratturazione di entrambi i piedi, la caduta dei frammenti di ceramica che riempivano le cavità oculari, la scomparsa della barba posticcia e della policromia del volto – il potere esercitato dalla figura è innegabile.

«Con la testa un po’ a pera, tratti acuti, simpatici, distinti e occhi piccoli molto ravvicinati al naso aquilino, lungo e stretto, e con le sopracciglia come due virgole. Una bocca piccola che sembrava ridurre ulteriormente, di proposito, quando parlava, come per dare più mordente a quello che diceva. Una miscela di nobiltà e di una sorta di volgarità dovuta alla sua grassa risata infantile»: così Fernande Olivier, compagna di Picasso dal 1904 al 1912, nella sua «memoria» Picasso e i suoi amici.

Apparentemente la descrizione non ha nulla a che vedere con l’immagine della statua nkisi. Sarebbe una forzatura voler operare una sovrapposizione tra le due figure e arrivare così a identificare pienamente il soggetto con l’oggetto. Se è pur vero che, in generale, sovrapponendo le due immagini sono le differenze, piuttosto che le assonanze, a emergere – da una parte, viso triangolare, naso aquilino, occhi piccoli, sopracciglia arcuate e bocca stretta; dall’altra, viso rotondo, naso camuso, grandi occhi a mandorla, sopracciglia marcate e bocca carnosa –, qualcosa nella descrizione di Fernande ci mette in guardia, facendoci intuire che il potere di fascinazione trasmesso dal colto e goffo Apollinaire non è lontano da quello emanato dalla scultura congolese.

Ed è proprio il connubio di eleganza e volgarità, erudizione e ingenuità, dolcezza e teatralità, a costituire il fulcro di questa forza attrattiva. Dovette intuirlo Picasso, intimo di Apollinaire, se nel disegno Tête (portrait d’Apollinaire) dell’agosto 1908, rappresentò il volto dello scrittore con le fattezze marcate di una scultura africana: i lineamenti segnati da spessi tratti di carboncino, come scolpiti nel legno.

Non c’è rapporto diretto tra la statua nkisi e il ritratto. Anzi, quest’ultimo dovette precedere l’ingresso della scultura nella collezione di Apollinaire, se è vero – come sostiene William Rubin – che lo scrittore iniziò ad acquistare art nègre intorno al 1910. Ciò non smentisce, tuttavia, l’attrazione che già da qualche anno l’avanguardia parigina mostrava nei confronti di questi nuovi linguaggi. A interessare non era l’antichità dei manufatti africani, né tantomeno l’autore o l’esatta provenienza: potevano essere prototipi originali o repliche commerciali, quel che attraeva era la loro estraneità alla tradizione occidentale.

Risale al dicembre 1907, in un’intervista a Henri Matisse, una delle prime menzioni che Apollinaire fece dell’arte tribale (G. Apollinaire, Henri Matisse, in «La Phalange»). Il timbro scelto dall’intellettuale nel parlarne mostra la volontà di enfatizzare l’espressività della produzione artistica dei cosiddetti selvaggi, mettendone in risalto il movente religioso, piuttosto che quello estetico.

D’altronde il sodale Picasso, nel giugno dello stesso anno, aveva fatto la sua prima passeggiata tra le sale polverose del Musée d’Ethnographie al Trocadéro, sperimentando il profondo imbarazzo di chi avverte l’essenza magico-rituale degli oggetti che lo circondano.

Una visita rimasta celebre, tra le altre cose, per la sua concomitanza con l’ultima fase di lavorazione delle Demoiselles d’Avignon: «Le maschere non erano sculture come le altre. Per niente. Erano cose magiche (…) tutti i feticci servivano alla stessa cosa. Erano delle armi» (André Malraux, La tête d’obsidienne, in Œuvres complètes, Gallimard, 1996).

A conti fatti, la sensazione di disagio provata da Picasso attraversando quelle vecchie sale impregnate dall’odore di muffa non è differente da quella che abbiamo vissuto noi stessi, visitando l’appartamento di Apollinaire.

Se in quel giro d’anni Picasso si rendeva conto che ogni opera d’arte è un’arma di difesa, un esorcismo, perché – proprio come la statua nkisi – cerca di tenere a bada angosce e paure; Apollinaire, dal canto suo, insisteva sulla svolta epocale che l’art nègre avrebbe potuto imprimere alla produzione artistica contemporanea.

A partire dal 1908 e fino alla pubblicazione, con Paul Guillaume, dell’album fotografico Sculptures nègres, lo scrittore non smise mai di sottolineare il carattere demiurgico degli anonimi scultori di idoli africani, capaci di non piegarsi alla semplice riproduzione del reale, ma inclini piuttosto a dare vita a nuovi immaginifici mondi.

A memoria di tale insegnamento, che avrebbe voluto trasmesso all’intera giovane generazione di pittori e scultori, costituì una raccolta di statuette, maschere e feticci.

Il nkisi, a capo di questa nuova tribù di silenziosi testimoni del mutare dei tempi, reclamava rispetto per l’arte che così degnamente rappresentava. Emanando quell’aura di magica deferenza che abbiamo còlto al suo cospetto, annunciava, attraverso la piccola e simpatica bocca di Apollinaire («Melanofilia o melanomania», in Aneddoti 1911-1918): «È con grande audacia di gusto che si è giunti a [considerarci] come vere opere d’arte. Tale audacia non ha oltrepassato il suo scopo essendo noi] realizzazioni estetiche alle quali l’anonimato non toglie nulla del [nostro] ardore, della nostra] grandezza, della [nostra] autentica e semplice bellezza».