Con una piccola manciata di vendite importanti (record breaking deals, nel gergo di «Variety»), una generale soddisfazione nel funzionamento della piattaforma ideata appositamente per il festival (che era piena zeppa di opportunità per socializzare virtualmente, cortesia degli sponsor della manifestazione), e un educato tepore nei confronti della qualità del programma, Sundance 2021 ha chiuso in un’atmosfera di successo, accentuata dall’esaltazione euforica con cui sono stati accolti alcuni titoli. Il film d’apertura, Coda, venduto per 25 milioni alla Apple, ha vinto anche quattro premi – oltre al gran premio della giuria del concorso Usa, quello del pubblico, quello per la miglior regia e per il miglior cast d’insieme; Hive, della regista del Kosovo Blerta Basholli, presentato nel concorso internazionale, ne ha vinto il gran premio, quello per la regia e quello del pubblico; l’animato Flee, acquistato da Neon e Participant, quello del miglior documentario internazionale.

DUE VITTORIE – gran premio per il miglior documentario Usa e premio del pubblico- e vendita record (12 milioni, offerti da Searchlight e Hulu) a un altro film in programma la serata dell’inaugurazione, Summer of Soul (…Or, When the Revolution Could Not Be Televised). Diretto dal dj nonché batterista dello storico ensemble soul The Roots, Ahmir «Questlove» Thompson, era uno dei titoli più attesi del programma, portando in sé la promessa di un girato mitico, rimasto in gran parte seppellito per oltre cinquant’anni – quello dell’Harlem Cultural Festival, la serie di concerti, tenutasi nell’arco di sei week end, tra le fine di giugno e quella di agosto del 1969, al Mount Morris Park (oggi dedicato a Marcus Garvey). Era l’estate di Woodstock (nell’anno del primo uomo sulla luna, degli omicidi Manson, del concerto di Altamont, di Chappaquiddick.) e fu quel festival musicale, allestito nei campi di una fattoria a un centinaio di chilometri a nord di New York, a rimanere nella storia, non in poca misura grazie al successo dell’omonimo film di Michael Wadleigh e all’astuzia promozionale dei suoi organizzatori.

ANCHE IL PRODUTTORE dell’Harlem Cultural Festival, Hal Tulchin e il suo promoter, Tony Lawrence, avevano filmato la loro manifestazione, immaginando un glorioso futuro per immagini. Ma il girato venne trasmesso solo in una serie di speciali sulla rete locale di New York WNEV, e solo in parte. B.B. King, Mahalia Jackson, Stevie Wonder, Max Roach, Gladys Knight & the Pips, Sly and the Family Stone (quel giorno il servizio d’ordine era provvisto dalla Black Panthers, visto che la polizia di era tenuta alla larga), Nina Simone (alla cui apparizione elettricamente «invasata» Summer of Soul dedica quasi l’intero finale), The Staple Singers…il line up è pazzesco, da vertigine.

QUASI ALTRETTANTO interessante il controcampo – un mare di spettatori (stimati intorno ai trecentomila), in gran prevalenza afroamericani, di tutte le età e (almeno in apparenza) estrazioni, che quasi nulla sembrano condividere con la gioventù bianca, educata e «hippie» confluita a Woodstock – in tie dies, bell bottoms, chiome fluenti, lo spinello alla mano, gli acidi in tasca. Summer of Soul è un documento interessantissimo (apprendiamo anche che sarebbe stato il sindaco repubblicano John Lindsey a facilitare il festival; Jessie Jackson, che ricorda gli omicidi di King e di Malcolm X, si presenta come il nuovo leader della black community) e un documentario mancato. Questlove, invitato alla regia dai produttori del film, dice di esserci avvicinato al girato come a una delle sue performance di disc jockey. E sui numeri musicali, in gran parte inediti, pesa l’intervento. Tagliate in frammenti e (la cosa peggiore) intercalate da interviste realizzate oggi con partecipanti al concerto e critici musicali, le performances (alcune leggendarie, come quella di Mahalia Jackson o l’asolo di Stevie Wonder alla batteria) vengono sacrificate, in quella che sarebbe stata senza dubbio una dirompente integrità, a una narrativa fatta di aneddoti e commenti non molto interessanti. Il tempo, la musica, la città, persino la folla compressi, come addomesticati.
Teoricamente all’estremo opposto del film di Questlove, nell’uso creativo delle immagini d’archivio, delle interviste e nella sua curiosità filosofica uno dei migliori documentari visti nel concorso Usa, All Light, Everywhere, di Theo Anthony, un’esplorazione del rapporto tra lo sguardo della macchina da presa e il mirino di un’arma, tra riproduzione fotografica e potere, che spazia arditamente tra l’archeologia dell’astronomia e quella del cinema, tra la biologia dell’occhio, le bodycam della polizia, i sistemi di sorveglianza di massa e il corso di cinema di un liceo nero di Baltimora. Il film di Anthony ha vinto un premio speciale per la sperimentazione non fiction.