La politica italiana e il festival di Sanremo si sono nutrite per decenni delle proprie reciproche vanità. E delle proprie debolezze. «Se fossimo a Sanremo ci darebbero il premio della critica». Così Matteo Renzi, in un comizio di due anni fa dopo la sconfitta alle primarie. La battuta gli piace: è ingegnosa, meno consunta dei catenacci e dei rigori del calcio. La ripete altre volte mentre vede avvicinarsi il traguardo: «Noi siamo qui per vincere il Festival». Ottiene l’incarico con puntualità cronometrica nella settimana di Sanremo. Come dire, il cerchio si chiude. Allargava il campo il regista Paolo Virzì sulla prima di Repubblica, ieri, nel proclamarsi un vero Sanremo-addicted: «…si continuava a percepire l’appuntamento con Sanremo come un passaggio irrinunciabile e naturale, al pari del Natale, dell’antitetanica, della carta d’identità». Drogato di Sanremo, Virzì, «ma non come quelli che si divertono a farne sberleffo». Anzi, «con una specie di orgoglio civico». La professione di un piacere innocente, specie se generazionale, va compresa. Liberi di aderire o sabotare. Né aderire, né sabotare. Sanremo del resto è il nostro carnevale televisivo. C’è posto per tutti e tutto. Il camp e il trash. Matteo Renzi e Beppe Grillo.

Beppe Grillo annuncia via twitter che stasera sarà a Sanremo, mica alle consultazione al Quirinale. L’inversione della metafora è significativa. Nel 1989 lo stand-up festivaliero dell’allora comico ruotava attorno alla frase: «Dove c’è la televisione non c’è la verità». Dopo una girandola di De Mita, Martelli, Cotugno, Jovanotti, si arrivava alla seguente conclusione (pre-internet): «Noi 18 milioni di rincoglioniti che non sappiamo darci una voce». L’anno scorso aveva detto che sarebbe venuto a cantare, poi non si è visto. Quest’anno, minaccia, sarà «fuori e dentro il teatro». Si vedrà. Il povero Bersani, chiamato all’Ariston da Maurizio Costanzo nel 2010, si beccò un paio di «basta» e il microfono passò al ministro Scajola. Quelli erano i tempi.

Increspa la Rete, intanto, la conclusione di un pezzo del Corriere della Sera che cita con nonchalance Ennio Flaiano nel preannunciare «la placida normalità» alla quale la cittadina ligure tornerà dopo l’ultima serata: «Lo struscio dei passanti che fanno su e giù in via Matteotti con l’indolenza delle alghe». Flaiano descriveva così l’aria di via Veneto, nei giorni in cui scriveva La dolce vita con Fellini. Si dovrà attendere il 1968 perchè dica la sua, da par suo, in una memorabile pagina di diario tante volte citata sul Festival: «Ho visto alla televisione una delle serate di Sanremo. Ero a cena in casa di amici e non ho potuto sottrarmi».

L’annata fatidica, la fastidiosa retorica del Nuovo, un antico cinismo, forse anche il menù della cena, hanno il loro peso nelle ubbie dello scrittore: «Questi amici intendevano vedere la trasmissione per ragioni di studio, essendo psicologhi e interessati ai fenomeni della cultura di massa. Alla fine mi sono accorto che a loro quella roba piaceva». Conclusione: «Il fatto che a cantare fossero dei giovani serviva a garantirli che la loro approvazione rientrava nell’aspetto giovanile del fenomeno. La verità è che a me lo spettacolo, non so più se ridicolo o penoso, di quella gente che urla canzoni molto stupide e quasi tutte uguali, mi è parso di vecchi. Comunque, se la gioventù è questa, tenetevela».

E così anche Renzi è sistemato.