C’è una parola che percorre un certo filone della filosofia europea, da Kierkegaard in poi, sino ad Heidegger, ed è “autenticità”, ossia essere se stessi, liberarsi dei ruoli imposti dalla società, andare alla radice di un pensiero e di un comportamento che ci appartengono e ci identificano cercando di evitare ogni sovrastruttura e ogni maschera. L’autenticità è un’idea radicale (e un’esigenza paradossalmente sentita e vissuta da un filosofo come Kierkegaard che pure si è sdoppiato e moltiplicato nei vari pseudonimi con i quali ha firmato i suoi testi) che fatalmente abbandona il piano della teoria per incrociare quello dell’esistenza, dell’essere “qui” e “ora” di ogni individuo. L’esistenzialismo – soprattutto attraverso le opere di Sartre, Camus, e Simone de Bouvoir – ha segnato fortemente il pensiero degli anni ’50 ed ha creato un clima d’interesse per una nuova etica dell’autenticità del vissuto, divulgata persino dalla letteratura di Françoise Sagan, e in seguito affiorata nell’Ecole du regard di Robbe-Grillet, nel teatro di Beckett, nel cinema di Resnais e di Duras, e infine nella Nouvelle Vague. Quest’etica dell’immediatezza e della spontaneità, della radicalità dell’essere, aveva contagiato anche le arti visive e i nuovi artisti, che si staccano dalla tela per cogliere il movimento nel suo divenire, il corpo nel suo muoversi, la colata di colore nel suo cadere sulla tela. Già nei primi anni ’50 Jackson Pollock con l’”action painting” aveva spostato il fulcro della creazione dalla tela al “gesto” del dipingere, e tutta l’arte contemporanea si muoveva sempre più verso modi di essere e comportamenti. A Firenze, negli anni ‘60, una giovane critica d’arte allieva di Longhi, dopo alcune pubblicazioni su Seurat e Rousseau, mette in crisi il proprio ruolo di critica e decide di dare la parola agli artisti registrando su nastro i loro interventi orali. Il suo nome è Carla Lonzi e molto presto abbandonerà la carriera di critica, “contestando”, come si diceva allora, il suo professore e il ruolo della critica d’arte in generale per dedicarsi, oltre che alla voce degli artisti, all’esplorazione di sé, del suo statuto di donna, del suo posto nel mondo, all’autenticità dei suoi impulsi e dei suoi desideri attraverso il dialogo con altre donne e la costituzione di un gruppo all’interno del quale fosse possibile costruire ex novo la propria identità e guardare con “occhi di donna” il mondo circostante e il proprio universo interiore. Carla Lonzi si era formata attraverso anni che aveva scelto di trascorrere in un collegio religioso ed anni di militanza nel Partito Comunista, elementi che forse avevano contribuito a conferire al suo linguaggio una serietà, un’austerità, una logica stringente, che lasciavano poco spazio a cedimenti “femminili” o ad indulgenze nei confronti del mondo maschile, e, soprattutto, contrastavano con la cosiddetta “liberazione sessuale” nata negli Stati Uniti e giunta in Italia soprattutto attraverso Marcuse e gli scrittori della Beat Generation. Rileggere oggi Memorie di una Beatnik di Diane di Prima può dare un’idea – sebbene la stessa autrice confessi di aver “calcato la mano”, spinta dagli editori – della liberalizzazione dei costumi alla fine degli anni ’60 in America, tra spinelli e Figli dei fiori. Sebbene non tutte le ragazze si ritrovassero nel rigore e nell’intransigenza delle formulazioni di Carla Lonzi, che con Carla Accardi ed Elvira Banotti aveva fondato Rivolta Femminile, i piccoli libretti verdi stampati dalla Casa Editrice che aveva lo stesso nome, cominciarono a circolare e a destare interesse anche per i loro titoli esplosivi, venuti dopo il Manifesto di Rivolta femminile: Sputiamo su Hegel nel 1970, seguito l’anno successivo da La donna clitoridea e la donna vaginale, entrambi frutto delle riunioni di autocoscienza condotte settimanalmente dal gruppo milanese formatosi intorno a Carla Lonzi. Mentre in molte città erano nati gruppi femministi che organizzavano manifestazioni, si battevano per la libertà di abortire ed esibivano in pubblico la loro protesta colorata fatta di zoccoli, seni al vento e gonnellone zingaresche, dando vita all’aspetto più folcloristico e superficiale del femminismo, nelle stesse città si formavano i piccoli gruppi di Rivolta Femminile, in cui ognuna raccontava al registratore – in una confessione immediata, come Carla Lonzi aveva già fatto con gli artisti – il proprio vissuto e i problemi legati alla quotidianità, con una particolare attenzione ai rapporti con gli uomini e alla sessualità. E, come sta avvenendo oggi con le “confessioni” legate alle rivelazioni di Asia Argento, le reazioni del gruppo oscillavano tra la solidarietà e la disapprovazione, riunioni “difficili” quindi, anche perché assomigliavano in parte a sedute di analisi, ma senza l’analista e non strettamente private. Le pubblicazioni di Carla contenevano affermazioni molto scarne ed incisive sulla società e sulla stessa cultura, che risultavano effettivamente programmate e decise da una volontà maschile quasi mai contraddetta o contestata radicalmente, che aveva preso nel corso della Storia decisioni ed iniziative senza mai tener conto di una metà del genere umano di gran lunga maggioritaria: le donne. Il suo linguaggio, scarno e assolutamente piano, senza enfasi, più che il tono della rivendicazione, ha quello della constatazione, che, diversamente da ciò che si potrebbe pensare, non apre ad alcuna obiezione o discussione e si pone con la mitezza – e l’autorità – dell’osservazione, con la definitività dell’evidenza. Di qui a mio avviso la radicalità del suo femminismo, che rivendica l’orgoglio della differenza contro l’illusione dell’uguaglianza e radica nell’anatomia femminile – la clitoride come via regia all’orgasmo – l’autonomia di una sessualità svincolata dalle richieste maschili e dal fine generativo, considerato illegittimo. Oltre alle molte verità che i testi poco frequentati di Carla Lonzi ci hanno lasciato c’è da considerare la pazienza, la precisione e la costanza con cui ha trascritto ciò che in molti anni è stato prodotto da un particolare vissuto delle donne e dalla loro parola. Maria Luisa Boccia, che a Carla Lonzi ha dedicato un libro ampio ed esaustivo, L’io in rivolta, parla di uno “sguardo spietato” generato in lei dalla lettura del testo di Carla Lonzi Vai pure, indirizzato come commiato a Pietro Consagra, il grande artista a cui la Lonzi era stata legata per molti anni. Ecco, credo che questa sana, spartana spietatezza sia quel coltello che alle donne è necessario quando malintesi, convenzioni e falsi sentimenti le legano a situazioni invivibili distruggendone l’io e l’autenticità.