Il tema del femminile dell’acqua è bello e suggestivo. L’elemento acquatico rimanda infatti al materno, alla matrice primordiale della vita. Ma questo accostamento si rivela presto tutt’altro che semplice; sia perché in realtà questa sostanza limpida e trasparente è carica di insidie, sia perché il concetto di femminile è a sua volta denso di ambiguità e contraddizioni. E’ donna Igiea, la dea della salute e dell’igiene, che tiene in mano una coppa d’acqua limpida, alla quale però si abbevera un serpente, mescolando suggestioni di vita e di morte. D’altronde è noto che ‘farmacon‘ significa sia medicina che veleno. Così, c’è chi ha paura di immergersi nell’acqua e chi, in preda alla nevrosi ossessiva, si lava compulsivamente le mani per scongiurare il contagio delle malattie o per mondarsi da un inconscio senso di colpa.

Come archetipo, l’acqua è il simbolo basilare della partecipazione della nostra piccola, individuale esistenza all’immensa configurazione del cosmo. Siamo infatti, come ci insegna la biologia, composti al 75 % di H2O. Nella dimensione del sogno evoca le multiformi profondità dell’inconscio: la nascita come un tuffo, il fascino subacqueo degli abissi e il terrore di annegare; la superficie lagunare stagnante della depressione o lo scorrere della corrente come simbolo della perdita del controllo degli istinti; o il deserto, dove l’acqua -per la sua tragica assenza- è la protagonista assoluta. Sigmund Freud, ne Il disagio della civiltà, prendendo a prestito il termine dall’amico Romain Rolland, parla del “sentimento oceanico” che ciascuno sperimenta intimamente come aspirazione a “far tutt’uno col mondo e con le cose”, in netta e eterna contrapposizione al desiderio opposto di emergere come individuo unico e separato. Ognuno di noi, per quanto adulto e maturo, conserva dentro di sé un più o meno segreto senso di nostalgia per un’epoca arcaica della vita, o meglio per un livello perenne dello psichismo, in cui non esistono confini tra sé e non sé.

A sua volta, il più geniale degli allievi di Freud di prima generazione, Sandor Ferenczi, volle intitolare Thalassa, cioè ‘mare’, una delle sue opere più significative, nella quale esplorava il progressivo divenire di maschio e femmina attraverso il processo di individuazione. In una grandiosa e drammatica analogìa tra la filogenesi e l’ontogenesi, vede l’essere umano, uomo o donna, discendere dalla comune radice del mondo animale, che risale su su fino agli anfibi bisessuati e più indietro ancora all’arcaica appartenenza al mondo inorganico.

L’acqua sconfinata allora -se non vogliamo confermare l’antico equivoco di equiparare il femminile all’indifferenziato- non è la madre, e tanto meno la donna; ma è la matrice universale della vita, alla quale tutti (quale che sia il nostro genere sessuale) segretamente aspiriamo a ritornare, nella nostalgia dolce e mortale dell’annientamento di sé. Mentre la fantasia di possedere originariamente la doppia natura della bisessualità corrisponde ancora oggi all’illusione di essere ‘tutto’, maschio e femmina, ma nasconde la paura di non essere ‘niente.

In questa chiave, il massimo piacere è nella regressione. Mentre la grande e faticosa conquista dell’essere “uno” -in una identità solida ma limitata- è anche ineludibile destino di solitudine. L’attrazione per la fusione oceanica è il bordo dell’abisso delle patologie più gravi. E al tempo stesso può essere anche la consolazione per il male di vivere, alla quale ciascuno può attingere episodicamente, senza impazzire: nell’innamoramento o nel godimento sessuale; oppure -la contraddizione è solo apparente- nelle esperienze estreme mistiche, religiose e spirituali.

D’altronde, nella nostra epoca il concetto di ‘femminile’ giustamente non si contrappone più in modo lineare con quello di ‘maschile’, ma si articola nelle complicazioni del ‘genere sessuale’, tormentato attualmente da conflitti irrisolti (al momento si contano in rete 47 diversi gender o pretesi tali). Non più un dato, ma un vissuto, dal destino della biologia all’arbitrio della cultura, dall’ineluttabilità dell’anatomia al diritto. Un terreno concettuale accidentato, tutt’ora ad alto tasso di contrasti dentro e fuori dalla psicoanalisi.

Di conseguenza, durante il “Festival dei sensi” sguazzeremo felicemente nelle infinite configurazioni liquide, tra cascatelle, torrenti, gocce e fontane; tra naturale e simbolico, pubblico e privato, terme e Spa, mito, poesia, leggenda; ma anche tossine e batteri, economia e politica … portando pazienza se non riusciremo a chiarire il dilemma identitario del femminile dell’acqua che coniuga la docilità della forma alla potenza della corrente. Ma se ancora non siamo riusciti a chiarirlo nei confronti degli umani, come possiamo pretenderlo per l’H2O?