Anche Clint Eastwood, come Terrence Malick, quest’anno si è avventurato nelle sterminate distese sensoriali dell’Imax. A parità di fascino dei due progetti, sul piano della contemporaneità e su quello filosofico, quello di Clint è il più riuscito. Un kolossal catastrofico, compresso in soli, asciuttissimi, 96 minuti (diversamente quindi dalla struttura slabbrata, e del mood sentimentale di Hereafter) e in cui la scena del «disastro» non viene racchiusa in un momento clou e ipertecnologico del film ma frantumata, rivista, in sguardi diversi, nel suo corso-a partire dai credit di apertura.
L’iconoclastia dolce, spontanea, a cui ci ha abituato il cinema di Eastwood, si riconosce subito nelle immagini di quei titoli di testa, affidate a un aeroplano che sfreccia tra i canyon di vetro di Manhattan – memoria di un trauma rimasto infilmabile tutt’oggi. E che, ci ricorda Clint, qui era la posta in gioco.

Nella realtà, quel gelido pomeriggio del gennaio 2009, il volo 1549 della Us Airways, diretto a Charlotte in North Carolina – con entrambi i motori in avaria dopo l’incontro con uno stormo di oche canadesi – non perse il controllo tra i grattacieli della città ma atterrò miracolosamente sul fiume Hudson. I suoi cento passeggeri incolumi, come anche i cinque membri dell’equipaggio.

È al responsabile di quel «miracolo sull’Hudson» (fu battezzato subito così, come un film di Frank Capra), il capitano Chesley Sullenberger, che Eastwood dedica il suo nuovo lavoro, Sully.

Come l’idea del miracolo, anche il soprannome del capitano – il cui fisico allampanato, lo sguardo ironico, i baffi e i capelli bianchi, ricordano quelli di John Carpenter – venne adottato immediatamente da tutti.
Il Sully di Eastwood ha gli occhi più azzurri e la corporatura meno longilinea di Tom Hanks. È anche come tanti personaggi eastwoodiani, un uomo tormentato dietro alla calma apparente, che vive, in un replay costante, e con finali drammaticamente diversi, i 208 secondi che lo hanno trasformato in un eroe nazionale.
«Ti abbiamo già dedicato un drink, il Sully: una dose di vodka Grey Goose (in inglese oca) e uno spruzzo d’acqua», gli dice con classico spirito imprenditoriale newyorkese il barista di una taverna vicino a Times Square dove lo schivo pilota si rifugia una sera, chiaramente a disagio nei panni dell’ultima celebrity di turno, contesa tra i maggiori presentatori tv e le «photo op» con il sindaco Bloomberg.
Parzialmente tratto dal libro autobiografico Highest Duty: My Search for What Really Matters, il film di Eastwood adatta in libertà la cronologia degli eventi che seguirono il mitico atterraggio sull’acqua, concentrando nell’arco di qualche giorno l’inchiesta del National Transportation Safety Board, di fronte a cui, Sully e il suo co-pilota, Jeff Skiles (Aaron Eckahrt), un uomo di poche parole come lui, dovettero difendere la scelta di planare sul fiume, invece di seguire le direttive dei controllori di volo e rientrare all’aeroporto di La Guardia, da dove l’aereo era partito, o atterrare a Teeterboro, sulla riva del New Jersey.

 

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È lo scontro tra il guizzo di genio professionale e la burocrazia, tra la scelta individuale di un uomo e la macchina – un tema ricorrente della filmografia eastwoodiana, fitta com’è di indocili, schivi e solitari. Se, tra di loro, Sully è sicuramente uno dei meno fiammeggianti, e dei più amabili, l’eccezione racchiusa nella sua normalità è la chiave del film – magnificamente ancorata all’interpretazione di Hanks, in un’ennesima variante del suo americano tranquillo.
«Siamo seri», dice Sully al grigio panel di esperti di aviazione dopo che due diverse simulazioni al computer provano che ce l’avrebbe fatta a rientrare incolume in entrambi gli aeroporti. «Non avete nemmeno preso in considerazione il fattore umano. La sorpresa, il fatto che non ci eravamo mai trovati di fronte a una cosa del genere». È un’obiezione che gli giova solo 38 secondi. In cui stanno, però, le vite di 155 persone. Sono persone «normali» che quasi non conosciamo, appena tratteggiate, ammassate nell’aereo, e poi in bilico sulle sue ali, galleggianti sull’acqua grigiastra. Nella luce brutta dell’inverno. Mentre, dalla riva e dall’aria arrivano i soccorsi – newyorkesi che non si scompongono di fronte a nulla, gente che sta facendo il suo lavoro. Come Sully. «Il merito di quello che è successo è di tutti, non solo mio», dirà il vero Sully nei titoli di coda.
Non ricordo Clint Eastwood a New York dai tempi di L’uomo con la cravatta di cuoio, di Don Siegel, nel 1968. Ed è interessante che questo poeta di Frontiere proletarie e marginalizzate torni proprio in un momento come questo alla città simbolo dell’establishment culturale e finanziario Usa. Come per ricordarci che, dopo tutto, l’America è una sola («non sono mai stato così felice di essere a New York» dice Skiles sarcastico a Sully, quando si ritrova con i piedi sulla superficie salda di un molo). Anche se sarà governata da Donald Trump.