Dalla esuberante fioritura nel dopoguerra, l’anglistica italiana si è dedicata a Shakespeare con passione. Tutto Shakespeare doveva essere divorato da folle di lettori che nel ventennio si erano nutrite a sazietà del Giulio Cesare (chi il preferito tra Cesare Bruto Antonio?). Il Maestro (alias Praz) ci diede la prima raccolta italiana di tutto Shakespeare fatta da traduttori vari, ormai dimenticata. Ma era stata innestata la gara tra i suoi discepoli, Baldini, Melchiori, Lombardo, D’Agostino che pubblicarono il loro Shakespeare presso grandi editori. Oggi il movimento è al contrario: si vuole entrare nella grande officina shakespeariana che elabora edizioni filologicamente aggiornate, scopre altre misure critiche, difetti vecchi e glorie nuove, e celebra un rito annuale a Stratford con studiosi che arrivano da ogni parte del globo. Il Bardo è ormai poeta mondiale che arricchisce teatri e accademie, ossessiona studenti, promuove – lui che fece solo studi da liceale – brillanti carriere di specialisti, fastosi convegni, romanzesche fantasie di editori.
Il gruppo di anglisti di Roma Tre – che negli anni sessanta- settanta era stato promosso da Baldini, Melchiori, Gentili, d’Amico – ha riavviato lo specifico contributo italiano sui drammi romani o classici (Giulio Cesare, Antonio e Cleopatra, Coriolano), aggiungendo quelli a lungo dimenticati, Titus Andronicus e Cymbeline, sotto l’intelligente guida di Maria Del Sapio Garbero: Rome in Shakespeare’s World, da lei curato (Edizioni di Storia e Letteratura, pp. 289, € 35,00), coadiuvata da studiosi illustri italiani e stranieri. Un loro precedente ricco contributo, Identity, Otherness and Empire in Shakespeare’s Rome del 2009, sempre a cura di Del Sapio, ha affinato e completato il giudizio che nel 2000 Sergio Perosa aveva dato sui tre drammi romani: «Parte del fascino con cui si presenta il mondo romano sta proprio nella sua violenta attualizzazione, nelle luci come stralunate che assume, nel suo carattere più di fiaba vissuta che di realtà storica; ma esso va anche legato a quello di un periodo che cominciava a vedere la Storia come sfida e problema perché esso stesso era intriso e costruito di sfide e problemi». Erano relegati in una nota a piè di pagina il Titus e Cymbeline, considerati opere minori. Ma già nel 1978 Giorgio Melchiori, sempre molto attento alle mode accademiche, aveva anticipato nel V volume del «Meridiano» da lui curato l’inserimento del Titus. E lo giustificava in considerazione del successo a suo tempo ottenuto per lo smaccato gusto popolare, l’ eccezionale vitalità drammatica, il sapore grottesco. Al Titus è riconosciuto il carattere arcaicizzante, ancor oggi alla base del teatro dell’assurdo e della crudeltà. Frammenti di drammaturghi minori quali Peele e Lyly, «precipitati in una Chicago elisabettiana-bizantina» annotò il giovane Manganelli.
La secolare storia della grandezza e decadenza di Roma ha lasciato una ricca testimonianza di grandiose rovine e straordinarie storie di trionfi e crolli, vittorie e sconfitte, ideologie e sistemi che si susseguirono e si cancellarono a vicenda. Non tanto l’idea mentale di Roma proposta da Freud, e poi da lui stesso corretta, fu rappresentata sulla scena elisabettiana, quanto la più duttile e plasmabile materia del mito di Roma (monarchica, repubblicana, imperiale ). Il teatro di Seneca era presente su quella scena; Plutarco e Ovidio riecheggiavano nell’inglese demotico di Shalespeare splendidamente evocativo. I suoi strumenti erano quei personaggi più grandi della vita, Coriolano, Cesare, Bruto, Antonio, violentemente proiettati verso il pubblico però aureolati di quell’altrove da cui provenivano. La toga insanguinata di Cesare – come le disjecta membra della Roma antica – riportano il presente della scena a quel presente angosciante della grande Storia che non si esaurisce mai. I drammi romani scolpiscono in ordinata sequenza la parabola tragica del potere che si consuma mentre trionfa – questo il monito, l’aggancio con il protervo pubblico londinese.
Cymbeline assicurava che il mito di Roma era risorto, l’aquila imperiale in volo nel fulgore della gloria annunciava la translatio imperii sul suolo britannico, e di conseguenza sul nuovo mondo oltre l’Atlantico. «Roma per Shakespeare (e i suoi contemporanei) – conclude Del Sapio – offriva uno spazio per meditare su problemi importanti come il tempo, la memoria, le radici, la rovina, i miti di fondazione, le forme di governo, le relazioni tra la città e l’io, la tragica dimensione della storia e delle azioni e ed emozioni umane». I successivi neoclassicismi fissarono l’immagine icastica dello stato di diritto nei tanti Campidogli disseminati in Europa e in America. Oggi i drammi romani tornano a interrogarci con vigorosa eloquenza. Shakespeare aveva fatto bene la sua parte.