Con la figura del triangolo Jhumpa Lahiri ha rappresentato nel suo In altre parole – il libro del 2015 in cui racconta il suo percorso linguistico e personale verso l’italiano – l’essere nata nella lingua bengalese, cresciuta in quella inglese e, infine, emigrata nel nostro idioma. Questa è una delle molte metafore che illustrano la storia di una metamorfosi a cui, da scrittrice affermata (ha avuto il Pulitzer nel 2000), si è sottoposta, ricominciando da capo in un’altra lingua, scoperta e amata d’istinto fin dall’età di vent’anni. Dentro questa forma a tre punte complessa e dinamica, come lei stessa la definisce, si è svolta la fuga da un sentimento d’inappartenenza, da un vuoto dell’origine che la scelta di un’altra lingua letteraria tende a riempire.
Con Dove mi trovo, il primo romanzo di Lahiri nato direttamente in italiano, la sua trasformazione fa un passo ulteriore: l’io autobiografico di In altre parole diventa un personaggio femminile protagonista di un’intima storia di solitudini sullo sfondo di una città e di un quartiere che, benché non abbiano un nome, somigliano molto a Roma, dove la scrittrice ha messo casa e trascorre lunghi periodi. Gli interni di abitazioni e negozi, gli esterni di strade, marciapiedi, piazze e paesaggi sono i luoghi che la protagonista vive o attraversa come un’ombra in situazioni circoscritte, in un tempo sempre più dilatato. La lingua piana, descrittiva, caratteristica anche della sua scrittura in inglese, diventa qui ancora più cadenzata e rallentata, un luogo letterario privato su cui Lahiri proietta momenti di vita e sensazioni di pura autenticità.

Quale è stata la genesi di «Dove mi trovo» e come ha lavorato alla costruzione della protagonista-narratrice e della sua voce?
Il libro è nato in Italia nei primi mesi del 2015, poco dopo l’uscita di In altre parole. Circa un anno prima ero su un treno per Venezia ed ero rimasta colpita dall’allegria sfrenata di un gruppo di persone sedute vicino a me, forse stranieri di passaggio in Italia. Li ho osservati e ho preso qualche appunto da cui è nato l’ultimo capitolo del romanzo, quello ambientato sul treno, scritto di fatto per primo. L’ho buttato giù a mano in un quaderno, e da lì sono stata catapultata nel mondo della protagonista che emergeva poco per volta. Il personaggio mi interessava, volevo conoscerla meglio, farla agire in ambienti diversi. Così è arrivato abbastanza presto il titolo del libro via via che aggiungevo gli altri capitoli, tutti più o meno della stessa lunghezza. Nell’autunno del 2015 ho lasciato Roma per tornare in America, con angoscia ma con quel quaderno in mano, diventato una sorta di laboratorio privato in cui sperimentavo, a singhiozzo, un nuovo progetto scritto non solo in una lingua nuova, ma in maniera diversa. Cercavo di arrivare a una lingua essenziale e di limitare l’arco temporale di ciascuna sezione. Una volta abbozzata una ventina di capitoli ho cominciato a capire l’anima di questa donna e a dare al libro una struttura.

Il tema del romanzo è la solitudine come condizione esistenziale, resa ancora più insuperabile dalla vita contemporanea e urbana della protagonista, la quale più che una figura in carne e ossa sembra uno «strumento» narrativo creato per indagare e dialogare con questa condizione…
La protagonista ha un rapporto complesso e conflittuale con la solitudine, come tutti noi alla fine. Ho messo a fuoco una donna piuttosto ordinaria, autonoma, che per certi versi padroneggia la sua solitudine, ma la deve anche arginare e combattere. È consapevole di essere una donna sola, senza famiglia o un compagno. E per le donne, fino a poco tempo fa, questa condizione era considerata anomala, problematica. Lei a volte è quasi fiera della sua solitudine, ma allo stesso tempo le pesa, la blocca mentre la definisce. Ha degli amici, frequenta varie persone, eppure a tratti si sente profondamente a disagio in mezzo agli altri, perfino insofferente, distaccata dalla vita. Cerca di avvicinarsi e anche di allontanarsi, il che crea una contraddizione di base, una tensione costante in lei.

La figura dell’ombra è centrale fin dal primo capitolo dove la donna si sofferma davanti a una lapide che commemora la morte di un uomo – una sorta di «memento mori» per i passanti; nel secondo capitolo, su un ponte insieme a un amico, guarda le ombre di chi lo attraversa proiettate sul muro, loro stessi ombre. Ma l’ombra è anche protezione e la prospettiva da cui osserva gli altri vivere nel suo solitario andare…
Le ombre sono la metafora chiave del libro. Non ne ero consapevole mentre lo costruivo ma ora me ne rendo conto. La protagonista costituisce una sorta di ombra umana nel senso che si trova spesso al seguito di altre persone, appoggiata, quasi attaccata ad altre vite senza sentirsi un elemento in primo piano, sostanziale. Non appartiene a nessuno, si identifica solo e fortemente con il suo ambiente. Sente, per di più, l’ombra della morte e del malessere – dei suoi cari, di una serie di figure appena conosciute, di se stessa. Le ombre hanno una valenza sempre metamorfica: appaiono, scompaiono, cambiano dimensione rapidamente, guizzano via. Hanno un forte doppio senso, il quale rispecchia, credo, la tonalità tanto luminosa quanto tenebrosa del libro. Le ombre ci spaventano e ci salvano. Nella caverna di Platone ci proteggono dalla diretta luce del sole e al tempo stesso ci tengono a distanza, ci ingannano, ci separano dalla realtà.

La solitudine, si legge, richiede «una valutazione precisa del tempo», un tempo che si dilata per far entrare nella vita della protagonista i particolari altrui. Così gli oggetti, quelle «tracce cocciute, banali dell’esistenza» acquistano rilievo…
Mi affascina la poetica degli oggetti, e la valenza quasi umana che gli attribuiscono certi artisti surrealisti, certi scrittori. Penso, ad esempio, a Savinio, Palazzeschi, Bontempelli – autori per i quali il confine tra noi e il mondo inanimato si confonde meravigliosamente. Un attaccamento a un oggetto può essere una cosa molto forte, può sostituire un altro tipo di rapporto, rappresentare un radicamento o diventare qualcosa di morboso. Il libro è pieno di oggetti amati, trascurati, persi, salvati, dimenticati. Negli ultimi anni ho traslocato spesso e di conseguenza ho dovuto lasciarmi alle spalle o buttare via una valanga di cose. Sembrano necessarie sul momento, e lo sono, ma poi spariscono dalla mia testa perché non sono più rilevanti. Così ho capito che solo certi oggetti sono veramente essenziali, così come certe parole. Senza almeno qualche oggetto non si può vivere, e si accumulano per forza, nel bene e nel male. Ho perso vari oggetti preziosi a causa dei miei spostamenti, e mi chiedo ancora perché la loro mancanza abbia suscitato in me un tale dolore. I nostri oggetti, quelli che usiamo, possediamo, desideriamo, fanno parte della vita. Senza di noi non hanno senso, li investiamo di emozioni, ma gli oggetti ci sopravvivono, restano.

Le figure femminili sono donne di ogni età che la protagonista vede come sue controfigure fino alla fine del romanzo quando si trova a inseguire una sosia, il suo doppio, una sua «variante». Ssembra che qui, nell’accettarsi come donna in perenne stato di passaggio si risolva il suo ruolo di figura metaforica che illustra una condizione umana di spaesamento e straniamento…
Il libro è un ritratto a frammenti di una donna specifica che si confronta spesso con altre donne, conosciute o del tutto sconosciute. Tutte la colpiscono, le insegnano qualcosa, talvolta la turbano. La fanno riflettere sulla sua identità e sulle sue circostanze. In tutto ciò il rapporto complesso e mai risolto con la madre ha un gran peso, la quale, pur essendo sempre in vita, è una delle ombre che circolano attorno a lei. La sosia è una figura spiazzante, anche liberatoria. Il finale però, sul treno, in viaggio, introduce un’altra figura femminile molto più vitale e debordante rispetto alla protagonista. E tutto ciò che trasmette quest’ultima donna la inquieta nuovamente. La protagonista è quasi sempre alla ricerca, forse inconsciamente, di definirsi, quindi le altre donne servono da guida, esempi, indicazioni.
La sua identità, così come la sua posizione nell’arco di una giornata, non è mai una cosa sola: oscilla, cambia di continuo. In questo senso il libro celebra la natura transitoria, il carattere labile dell’esistenza.