Ella e John sono marito e moglie alle prese con gli anni, le malattie, lui raffinato professore universitario in pensione una carriera spesa a risarcire Hemingway dall’oblio, con la testa messa sottosopra da un Alzheimer, lei del sud, più reazionaria, la parrucca in testa per dissimulare il cancro che l’ha aggredita con ferocia.

Così visto che i figli per sedare le proprie nevrosi vogliono sistemarli in cliniche specializzate separandoli (leggi ospizi terminali di lusso) i nostri «vecchietti» pensano bene di scappare e di concedersi una vacanza ritornando sulla strada dei viaggi fatti con la famigliola… Il resto è facilmente prevedibile, che questo on the road americano di Paolo Virzì – il genere prediletto dagli europei quando vanno negli States – di orizzonti ne lascia scorgere pochi rimanendo ben perimetrato nella sceneggiatura – del regista insieme a Francesca Archibugi, Francesco Piccolo, Stephen Amidon – ispirata al best seller di Michael Zadoorian The Leisure Seeker – titolo originale del film e nome dell’amato camper dei due.

Da Washington Dc giù verso Key West (Florida) – Hemingway, sempre lui – lungo la Route 1, la stravagante coppia affronta la sfida più difficile di tutte: lei fragile ma risoluta, lui che potrebbe perdersi (e capita naturalmente anche questo) da un momento all’altro ripercorrono il film di un tempo che non c’è più.

E nell’Amarcord della loro esistenza – lacrima obbligata non preoccupatevi – il paesaggio dell’America, anche quella attuale di Trump un po’ posticcia nelle scene di proteste e in certe battute del vecchio rimbambito – tipo «fuori i musulmani dal Paese» – finisce per sparire dietro alla prova d’attore, agli interpreti che prendono il sopravvento, Donald Sutherland e Helen Mirren, così perfettamente protagonisti da diventare poco credibili. Al contrario di quanto accade – per rimanere in un film di attori – in Tre manifesti a Ebbing, Missouri, non riescono infatti a muovere la scrittura pedissequa finendo per rimanerci intrappolati.

Sentimenti, crisi, dolori, rimpianti , confessioni postume, possibili tradimenti, gelosie retroattive, insomma i rewind della vita passata insieme toccano tutte le gamme obbligate, gridano sempre un po’ troppo, rinchiusi in quelle impennate attoriali mal guidate che li appiattiscono.

Non ci credi mai a loro, ai figli addolorati – che in realtà sono persino sollevati – figurine tra le molte che li circondano. Una campionatura dell’America inzeppata di lughi comuni, tra i parchi di divertimento, le cameriere, e il refrain «hamburger hamburger» ripetuto dal colto Sutherland quando viene colpito dal rincoglionimento subitaneo, caricatura dell’americano rozzo medio visto dall’altra parte dell’oceano.

In realtà per questa storia potremmo essere ovunque, nel suo «falso movimento» senza libertà interiore o esteriore ma soprattutto di sguardo. E l’altrove da solo non basta.