Dayanita Singh (New Delhi 1961) arriva con due valigie-museo da cui tira fuori la collezione di quarantaquattro libri-oggetto del suo Museum of Chance (2015), ognuno dei quali ha una copertina diversa. Libri pubblicati da Steidl, facilmente reperibili anche online, che hanno lo stesso contenuto ma diventano unici proprio in virtù della diversa immagine di copertina. Dall’India hanno viaggiato in Australia, dove hanno partecipato alla 20/ma Biennale di Sydney, prima di giungere al Mast di Bologna per la mostra Museum of Machines, curata da Urs Stahel (fino all’8 gennaio 2017).
A metà strada tra la valigia di Duchamp e quella di un mago, questi «contenitori mobili di contenuto» sono un’ottima metafora per raccontare anche il percorso dell’autrice, di cui è nota la fascinazione (o meglio l’ossessione, come afferma lei stessa) per la carta stampata, libri, librerie, biblioteche e archivi. «Sent a letter mi ha dato l’idea che un libro possa diventare una mostra – spiega Singh – dopo ho iniziato a lavorare ai miei musei e questi sono diventati Suitcase Museum. Un museo che si può trasportare facilmente e allestire ovunque. È la mia idea di museo del futuro». Ogni libro è collocato all’interno di una struttura di legno di teck (guai a chiamarla cornice): la fotografa indiana ne prende uno e immagina di metterlo sulla parete di un salotto, tra miniature e opere d’arte astratta. «Voglio che il mio libro sia lì, esposto nella sua struttura. Così è a portata di mano, lo si può mostrare agli amici mentre si parla di qualsiasi cosa. Non ho distrutto il libro, gli ho solo trovato una casa. Nella realizzazione di un libro ciò che è veramente importante è la sequenza. È come una sinfonia. La parte cruciale è l’editing, la selezione e l’accostamento affinché una certa immagine funzioni accanto ad un’altra».
Museum of Chance contiene fotografie in bianco e nero che Dayanita Singh ha realizzato in oltre trent’anni – «in un certo senso si può dire che questa è la mia retrospettiva» – ed è anche un tributo al cinema di Federico Fellini, soprattutto 8 ½ e Roma, oltre che degli amici-mentori Zakir Hussain e Mona Ahmed. «Tutti i miei temi sono nei film di Fellini, in questo suo modo di vivere tra sogno e realtà. Questo, poi, è il mio mantra: puoi lasciarti tutto alle spalle e ricominciare nuovamente da zero? (indica il volto di Mastroianni con la scritta)».
Nelle sale della Gallery sono circa trecento le fotografie articolate in serie, da File Museum (2012), Museum of Men – Recent (2013), Museum of Printing Press (2015), fino a Office Museum (2016), Museum of Industrial Kitchen (2016), passando per Museum of Machines (2013), entrato nella Collezione del Mast.
«Negli ultimi tre anni non ho mai esposto le mie foto-sculture appendendole alle pareti. Solo in questi musei, all’interno di strutture di legno – continua Dayanita Singh – . Ma qui ho pensato di mettere dei chiodi alle pareti perché fosse possibile cambiare qualcosa. Mi piace che ci sia una crescita organica del lavoro, che possa cambiare ogni volta. I chiodi sono come tracce di scaffalatura. Il lavoro è fluido, posso prendere, spostare qualche immagine o aggiungerne altre. Naturalmente posso farlo solo io, il curatore e qualcuno che decido io. Magari posso chiedere a te di creare la tua storia. Il museo ha anche un deposito che è mobile. In questo caso le strutture sono completamente vuote, ma è importante sottolineare che non sono solo strutture in sé. Sono parti fondamentali del lavoro. Sono un’artista vivente e posso cambiare idea quando voglio».
In File Museum le immagini mostrano la profonda connessione degli archivi anche come luoghi fisici. In India sono prevalentemente le donne che se ne occupano: organizzano, catalogano, conservano il materiale.
«Non esiste un’idea generale di archivio, sono tutti spazi specifici individuali. Forse, proprio lavorando al loro interno, è nata l’idea della struttura di legno. Ho bisogno dei musei, come dei libri, ma continuo soprattutto a fotografare archivi. È come se fossero dei vecchi parenti. Stanno lì, non vanno via, mentre altri lavori vanno e vengono. Penso che continuerò a fotografarli fino alla morte. Anche in Italia ne ho fotografati: l’Archivio di Stato a Venezia e quello storico dell’Istituto degli Innocenti a Firenze. Mi piace persino l’odore degli archivi, che José Saramago (in Tutti i nomi, ndr) ha descritto a metà tra la rosa e il crisantemo.
Partiamo da questi suoi musei, collezioni di immagini che ci restituiscono l’idea di una memoria collettiva in cui il passato (gli archivi) dialoga costantemente con il presente. C’è una sorta di umanizzazione degli oggetti che fotografa?
Effettivamente sono interessata a fotografare un oggetto solo per via della luce, o in base al sentimento che provo in quel momento. Non voglio lavorare come una fotocopiatrice. Nessuno mi dice vai a fotografare i macchinari o gli arredi da ufficio, lo faccio solo se posso aggiungere qualcos’altro fotografandoli. Ci deve essere sempre qualcosa che mi attira.

Questa visione apparentemente organizzata, attraverso la struttura di legno, sollecita anche curiosità e meraviglia come nelle antiche wunderkammern?

Sì, probabilmente. Penso che il primo museo di cui abbia avuto esperienza, come le persone della mia generazione, sia la vetrinetta che era in ogni casa, da qualche parte. Conteneva la Torre Eiffel in miniatura, una piccola bambola giapponese, la riproduzione del Taj Mahal… oggetti che si possono comprare e riportare a casa dai viaggi, che ci avevano colpito e con cui volevamo fare colpo anche sugli altri.

Uno dei suoi lavori più intimi è «Sent a Letter» (2008), che include anche un volume dedicato a sua madre Nony Singh, casalinga e fotografa amatoriale. L’aspetto compulsivo con cui lei fotografava il suo mondo, definendolo organicamente nei numerosissimi album, torna anche nel processo artistico della figlia?

Vorrei dire no, perché a quale figlia fa piacere somigliare a sua madre? Sappiamo tutte che è un rapporto piuttosto difficile, però effettivamente sembra che ci siano diversi parallelismi tra il lavoro di mia madre e il mio. Lei è l’archivista per antonomasia, non ha mai fotografato molto gli uomini, interessandosi piuttosto alle donne, agli arredi. Potrei dire che si tratta di una coincidenza, perché non ereditiamo niente, ma ci sono similitudini scioccanti anche se non lo voglio ammettere. Abbiamo anche fatto una mostra insieme, nel 2007, ai Rencontres d’Arles. Da lei, comunque, ho sempre avuto l’idea che si può fare quello che si vuole veramente.

Il bianco e nero è il linguaggio con cuiviene formulata la visione del mondo, ma per la prima volta in «Blue Book»(2008) è presente anche il colore in una chiave lirica…

Nelle proiezioni Archives e Factoires c’è una continuazione nell’uso del colore. Archives, in particolare, sembra in bianco e nero ma quando non te lo aspetti e pensi di aver visto male, ti rendi conto che c’è anche un accenno di colore. Grigi caldi, gialli, rosa, un tipo di colore che penso che Morandi avrebbe apprezzato. Il colore in fotografia deve avere qualcosa in più, rispetto a ciò che si vede ad occhio nudo. In India è così difficile fotografare a colori, perché c’è troppo colore. La mia idea è di lavorare più sulla sensibilità alla Visconti. Ho sentito dire, ma non ne ho la certezza, che faceva trattare la pellicola per ottenere la sua palette cromatica! Da lui ho appreso che c’è un colore personale che può funzionare, non è solo quello del paesaggio. La prima volta che ho usato il colore, in Blue Book, è successo per un incidente, perché stavo utilizzando la pellicola daylight dopo il tramonto. Questo colore è profondamente emozionale, ha un qualcosa di poetico e guardando quelle foto ci si dimentica che sono immagini d’industrie, alluminio, acciaio. Anche nel mio prossimo libro ci sarà il colore, ma stavolta sarà il rosso del sangue, quello del mestruo.