La pellicola della polaroid sembra venire da un passato remoto messa a confronto con i pixel dei selfie, delle foto fatte dalle camere digitali incorporate agli smartphone, o con l’immediatezza con cui l’immagine si manifesta sotto ai nostri occhi rispetto al suo progressivo emergere dalla patina lattiginosa di una polaroid.

LA STORIA dell’horror di Lars Klevberg – Polaroid appunto – è giocata proprio su questo contrasto fra una tecnologia analogica- la liceale protagonista, Bird (Kathryn Prescott), lavora in un negozio d’antiquariato – e quella digitale dei nostri giorni: il «mostro» si annida in una macchina fotografica polaroid degli anni Settanta che oggi appare «antica» come i cimiteri indiani che infestavano le case (e gli hotel) di tanti horror. Macchina che Bird riceve in dono da un amico, e che come scoprirà presto condanna a morte certa chiunque ne venga fotografato.

Ambientato fra un gruppo di liceali dell’immaginaria Locust Harbor, Polaroid segue un canovaccio familiare del genere, senza mai intraprendere strade alternative a quelle previste: le feste, la coppia di fidanzati, i corridoi della scuola, i genitori che a malapena fanno la loro comparsa, il passato traumatico della protagonista fondamentale nella sfida col mostro – e la progressiva conta dei cadaveri di cui solo i più giovani sanno darsi una spiegazione. Nel confronto fra presente e passato, Polaroid cerca anche di riflettere attraverso il genere sui temi più attuali di un presente «iperconnesso» e segnato dall’immediatezza delle tecnologie digitali, e in fondo sulla magia perduta – seppur malvagia – della luce «imprigionata» dalla pellicola in un mondo invaso dai pixel.