Quasi come la continuazione dei festeggiamenti per il Capodanno cinese, appena celebrato lo scorso cinque febbraio, il cinema del paese asiatico sarà rappresentato in maniera massiccia all’edizione di quest’anno della Berlinale. Fra la presenza estremo orientale alla manifestazione tedesca infatti, saranno ben dodici i lavori, lungometraggi o corti, realizzati o prodotti in Cina. In competizione troviamo So Long, My Son di Wang Xiaoshuai, regista che si presentò alla ribalta internazionale proprio a Berlino nel 2001 con Le biciclette di Pechino, premiato con l’Orso d’Argento. So Long, My Son è un affresco storico e personale che racconta le vicende di una famiglia nel corso di trent’anni, periodo che si interseca inevitabilmente anche con gli slittamenti sociali e politici che hanno trasformato in maniera quasi irriconoscibile il paese asiatico dai primi anni ottanta fino al presente. In competizione anche un’altro regista cinese, Wang Quan’an, ma con un film prodotto e girato in Mongolia, Öndög, storia di una donna pastore, del suo presente legato ad una semplice ma forte routine quotidiana, e del suo amore per la solitudine che si riflette nel quasi infinito paesaggio della steppa. Anche per Wang Quan’an si tratta di un ritorno a Berlino, così come ritornano nel lungometraggio molte delle tematiche già presenti negli altri suoi lavori, protagoniste femminili ed un cinema che guarda e descrive più le zone non urbane che non le città. Completa la presenza asiatica in competizione, tutta di registi cinesi, One Second di Zhang Yimou che ritorna a affrontare il periodo della Rivoluzione Culturale, già toccato in molti dei suoi lavori, dopo il discusso blockbuster The Great Wall e il dramma storico Shadow. One Second racconta l’amore per la settima arte e la forza che il cinema possedeva nel legare le persone e fare comunità al tempo della Rivoluzione Culturale, specialmente nelle zone più rurali del paese.

Nella sezione Panorama sarà invece presentato 37 Seconds della giapponese Hikari, film che affronta, anche con momenti di comicità, il tema della disabilità nel Giappone contemporaneo e come una mangaka di 23 anni costretta sulla sedia a rotelle, per fare esperienza “sul campo”, decida di fare un tour nelle zone a luci rosse di Tokyo. Sempre dal Sol Levante arriva And Your Bird Can Sing, film che è stato messo in cima a molte liste dei migliori lavori del 2018 in Giappone. Diretto da Sho Miyake si tratta di un adattamento di un romanzo di Yasushi Sato, autore suicidatosi nel 1990 ma i cui lavori negli ultimi anni il cinema giapponese sembra aver riscoperto. Dal 2010 infatti sono stati realizzati da suoi lavori tre lungometraggi, i notevoli Sketches of Kaitan City e The Light Shines Only There ed il meno riuscito Over the Fence. Come questi film anche And Your Bird Can Sing è ambientato in Hokkaido, e in particolare in una città portuale con la sua luce “nordica” e crepuscolare, dove le vite di tre giovani si incrociano quasi casualmente nella loro deriva. Si ritorna in Cina con The Shadow Play, sempre nella sezione Panorama, thriller attraverso il quale Lou Ye descrive la resistenza della popolazione di un parte di città contro il progetto di “rinnovamento”, ovvero distruzione, del loro quartiere. Due sono i film sud coreani presentati nelle sezioni principali del festival, Idol, secondo lavoro diretto da Lee Su-jin, è un neo-noir dove le aspirazioni politiche del protagonista Koo Myung-hui si inceppano quando scopre che suo figlio ha ucciso un uomo in un incidente automobilistico. Mentre Fukuoka diretto da Zhang Lu racconta l’amicizia di due uomini che si incontrano dopo quasi trent’anni, l’uno lavora in un negozio di libri a Seoul mentre l’altro ha un piccolo bar nella città giapponese di Fukuoka. A cavallo fra due paesi è anche Breathless Animals, realizzato negli Stati Uniti dal cinese Lei Lei, animatore che qui però sperimenta con il genere documentario per esplorare il legame fra immagini, nel particolare quelle della Rivoluzione Culturale, un tema che come abbiamo visto ritorna spesso in questa edizione della Berlinale, ed il passato personale e quello di una nazione. Conclude la presenza asiatica in Panorama Demons di Daniel Hui, satirca con accenti horror con cui il regista di Singapore critica il mondo dell’arte, nello specifico il teatro, con tutte le sue sovrastutture di potere, manipolazioni e pressioni.

Nelle sezioni laterali troviamo il sud coreano Pursuit of Death, nei Classici, diretto nel 1980 da Im Kwon-taek, storia di un’ossessione fra un ex poliziotto ed il suo acerrimo nemico, ambientato durante un periodo cruciale per la penisola, e Indigenous Cinema, sezione dove vengono presentati due importanti lungometraggi provenienti dalle Filippine. Palawan Fate del 2011 con cui Auraeus Solito, qui con il suo nome indigeno Kanakan-Balintagos, descrive la sua isola natale di Palawan, la sua cultura e i suoi miti fondativi da una parte, e la colonizzazione e conseguente inquinamento dall’altra. Si torna nel 1977 invece con il film culto The Perfume Nightmare, debutto per il leggendario Kidlat Tahimik che proprio a Berlino fu presentato, semi-autobiografica storia di un tassista e del suo desiderio di viaggiare nello spazio, dal suo minuscolo villaggio nelle Filippine fino in Francia e America, ma anche film-saggio, home-movie e documentario sui generis. Torniamo al presente invece con We Are Little Zombies del giapponese Makoto Nagahisa, zombie comico ed eclettico già premiato quest’anno a Sundance e che sarà a Berlino nella sezione Generation 14 Plus e che sembra continuare il trend zombie giapponese dopo lo stratosferico successo di One Cut of the Dead (Zombie contro Zombie) dell’anno scorso.

Per ultimo, come la fatidica ciliegina sulla torta di questa edizione, Rebel of the Neon God, lavoro che segnò nel 1992 il debutto per Tsai Ming-liang in un lungometraggio. La storia dell’amicizia fra due ragazzi in una Taipei viva di luci al neon, è anche il racconto di un’alienazione urbana ed esistenziale che tanto posto avrebbe trovato nei film provenienti da Taiwan fra gli anni ottanta e novanta del secolo scorso. Il film presenta già molti degli stilemi che sono ancora oggi presenti nel cinema del regista, come l’elemento liquido presente in forma di pioggia o di acqua che scorre, e l’insistenza quasi ipnotica verso paesaggi urbani deserti. Inoltre Rebel of the neon God è il lavoro e l’occasione che fa incontrare Tsai Ming-liang con Lee Kang-sheng, attore che viene scoperto per caso per strada e con cui collaborerà per quasi la totalità dei suoi film successivi.