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Il fascino dimenticato di Leo Brandi

Il fascino dimenticato di Leo BrandiLeo Brandi (a sinistra) con Totò in una scena del film «Miseria e Nobiltà»

Pagine/Un libro ripercorre le vicende artistiche del comico e attore di varietà partenopeo di cui restano scarse tracce sonore

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 5 marzo 2022

Il suo appellativo, Leo Brandi, è oggi praticamente sconosciuto e anche sul web si racimola ben poco. Eppure ha scritto canzoni a pioggia, inventato decine di macchiette, portato in visibilio il pubblico in ogni parte d’Italia da attore, stella dello spettacolo e cantante di successo. Brandi era il nome d’arte di Carlo Todini (1894-1959), categoria rivista, qualifica comico (recita il suo tesserino identificativo, iscritto alla Siae nel 1921), beniamino delle folle del varietà e dell’avanspettacolo, penalizzato dalla seconda guerra mondiale e dalla cultura ufficiale poiché le sue poche incisioni, su dischi a 78 giri, sono introvabili o rovinate dal tempo. Persino l’archivio Opere della Siae e la Discoteca di Stato conservano scarse tracce della sua gloriosa carriera che ha avuto un acceso bagliore finale, la partecipazione a Miseria e Nobiltà, il film del 1954 dalla commedia di Eduardo Scarpetta, dove fa il campagnolo, il cafone analfabeta che va dallo scrivano Totò per la lettera al «caro Giuseppe, cumpare e nepote», un tributo alla tradizione teatrale napoletana.

La copertina del libro Leo Brandi, il comico «cafone»

 

A ricordare i suoi fasti e rinverdire il suo prestigio ci pensa un libro, Leo Brandi, il comico «cafone» (edizioni Il Papavero, pp.185, euro 15), scritto dal nipote Carlo Maria Todini, stessa anagrafe e stessa passione per il palcoscenico e la tradizione familiare artistica (anche il padre Stefano ha lavorato coi De Filippo), attore e musicista con trascorsi televisivi e teatrali. Nel libro ci sono foto di scena, aneddoti, copielle di canzoni, vita familiare, date indimenticabili ripercorrendo i suoi trenta e più anni di carriera. Debutto come comico e imitatore, trasformandosi in Charlot che aveva visto dal vivo negli States, trasferito da ragazzo, dove gli era stato dato il soprannome Brandy che aveva poi italianizzato. «Fate la carità, signò/voi che tenete questo ben di dio/a voi niente farà, signò/vedete com’è nero ’o caso mio/Dal cielo sarà immensa/la grande ricompensa/sarete ripagata, signò/di tutto il bene che farete a me». Sono versi di Mendicante d’amore, probabilmente datata 1921, una delle prime canzoni scritte da Brandi nei panni di un pezzente che chiede la carità (e anche un po’ d’affetto), sulla scia del repertorio allegro di Maldacea e Gill. In particolare il poliedrico capocomico (e cantautore ante litteram) riportava strepitoso successo nelle audizioni della festa di Piedigrotta, quelle serate canore dove si facevano conoscere al pubblico le nuove canzoni delle varie edizioni musicali, generalmente pubblicate in fascicolo con musica e testo. Per tanti anni Brandi allietava le serate settembrine delle edizioni La Canzonetta e Epifani, spesso in coppia con Tina Castigliana o Luisella Viviani. La grande popolarità era dovuta alle sue indubbie qualità di macchiettista, misurandosi con tutti i grandi classici del genere, come Ciccio Formaggio, Carlo Mazza, Olga Fornacelli, Sequezia di Spezia, tutte scritte dal famoso duo Cioffi-Pisani.
«Juana è passata una semana/Juana e ne passeranno ancor/Juana dei tuoi baci ho tanta sete/me ne faccio limonate/me ne bevo acque d’orzata ma la sete resta ognor/Juana sono un pozzo pieno d’acqua/ anzi peggio ancor/ sono un fiume, un fiumicello/ un rigagnolo, un ruscello/sono l’Arno, sono il Po». Classici come Juana che conosceranno la ribalta nazionale grazie alle interpretazioni smaglianti di Nino Taranto e faranno anche la fortuna di altri comici di assoluto rilievo, purtroppo dimenticati, come Trottolino, Maghizzano, Fregolino e Marchetiello, tutto quello straordinario mondo di caratteristi, cantanti e soubrette, protagonisti del café chantant e dell’avanspettacolo che regalava buonumore e svago a generazioni di napoletani. Un mondo palpitante e vivo nelle pagine di questa pubblicazione, condita con le recensioni degli spettacoli più citati. Altre macchiette, come Margheritella mia, Ofelia Caloscia, Il fratello di Ercolino sono invece farina del suo sacco di fine osservatore della realtà che utilizzava per i suoi brillanti canovacci per tempi, doppisensi e improvvisazioni. Già nel 1934, da tifoso del Napoli calcio, aveva scritto che «pure la zia Elisabetta tene ‘a Sallustro ncopp a culunnetta» (la foto del calciatore sul comodino) e nel 1950, intonò Ritorno in Serie A parodiando M’aggia curà per salutare la promozione nella massima divisione.
Dai collezionisti si riesce ad ascoltare alcune sue lacche degli anni Quaranta apprezzando la dizione spessa da bifolco, la erre arrotata alla francese e altri accenti «da straniero», la verve contagiosa delle sue strofe e possiamo solo immaginare la sua gestualità e la carica emotiva che portava gli spettatori a chiedere bis e tris (una volta al Teatro Diana dovette uscire sette volte!). Peccato che non si possano rivedere i suoi monologhi trascinanti, però il fascino dei suoi brani colpisce ancora.

OMAGGIO A TOTÒ, «MALAFEMMENA» E LE ALTRE, IL «PRINCIPE» INCONTRA IL GROOVE
A lungo misconosciute, le poesie e le canzoni di Totò rappresentano una parte importante della sua personalità. Eleganti e appassionate, radicate nella tradizione napoletana, sono l’aspetto più intimo e malinconico, il lato nascosto della maschera da risata, che avrebbe meritato miglior fortuna. I versi eleganti e garbati hanno intrigato ancora oggi Gianni Valentino, poeta performer e Lello Tramma, musicista. Il duo, ha pensato di aiutarsi con la musica elettronica – loop, reverberi, beatbox – per portare le parole del principe De Curtis alle giovani generazioni del dancefloor. «Poesia e musica elettronica trovano la loro simbiosi», racconta Gianni Valentino, ideatore del progetto e voce recitante. «Lo spoken word e il groove sonoro sono stati creati all’unisono. Non si trattava di comporre le musiche e, dopo, in maniera passiva, interpretare i versi. Né viceversa. Abbiamo lavorato esotericamente in studio di registrazione e anche distanti, nelle rispettive abitazioni, senza sosta. Rapiti da questa voragine poetica, scambiandoci quintali di musica e trovando le soluzioni più sensate e equilibrate che una avventura del genere possa richiedere. In un frangente di tenebre umane, spirituali e creative, innescate specialmente dal secondo lockdown, l’arrivo di questa idea è stata una luce miracolosa per rialzarmi».
Il progetto è partito da una data dimenticata, i 70 anni di Malafemmina, probabilmente la più nota delle liriche di Totò, diventata una canzone di successo nel 1951, presentata alla Piedigrotta e oggi, in versione electrodance, lato A di un vinile in edizione limitata. Finora sono 11 le composizioni del duo tra cui Core analfabeta e Ammore perduto. E poi un poker, disponibile sulle piattaforme digitali, Che me manca, A cchiù sincera, Voglio bene ê femmene e A ‘nnammurata mia. Una poesia sulla solitudine, una dedicata a sua madre, un omaggio alla seduzione e una fragilissima ode all’amore. «Le poesie che preferisco – diceva il principe De Curtis – le ho scritte nel mio dialetto e hanno un’ispirazione fondamentalmente triste che si ripete come un leit-motiv» (i versi sono raccolti nel libro Antonio de Curtis Il principe poeta a cura di Elena Anticoli de Curtis e Virginia Falconetti, Colonnese editore).
Naturalmente Valentino e Tramma si aiutano con videoclip curiosi e hanno persino inventato Mizuzzina, versi dedicata alla moglie Diana Rogliani, così soprannominata affettuosamente dal comico, ottenendo il plauso della nipote Elena «siete entrati nello spirito di nonno e nonna», lato B di quel 45 giri in vinile, stampato in 100 copie. E hanno attrezzato un live show che ha già debuttato in Campania. Aspettando il tante volte annunciato Museo di Totò, nel quartiere Sanità, che risuonerà anche di dub, folk e jazz.

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