Giovedì 27 maggio 1971, in tarda mattinata, John Lennon entra nella «white room» degli Ascot Sound Studios, una sala di registrazione collocata all’interno della propria storica dimora a Tittenhurst Park, a ovest di Londra, vicino ad Ascot: di certo ignora, pur credendo fortemente alla propria musica, che, entro la sera stessa, fornirà al mondo Imagine, brano cult, simbolo, mito, uno dei più cantati, osannati, adoperati, coverizzati in tutto il mondo da allora a oggi. In realtà l’iter creativo risulta forse più complesso non tanto nella fase attuativa, quanto piuttosto nella messa in vendita presso un mercato discografico, comunque lesto a trasformare una ballata, di ispirazione soft rock, via via in coro generazionale, slogan pacifista, peana cosmopolita, musica ecumenica buona per tutte le stagioni.
All’uscita negli Stati Uniti (ottobre 1971) per l’etichetta beatlesiana Apple, Imagine diventa il 45 giri più venduto nella carriera di Lennon anche in concorrenza con i numerosi singoli degli altri «scarafaggi» (soprattutto Harrison e McCartney); è un successo planetario con il terzo posto nella Billboard americana e il primo nella RPM canadese, benché alcuni gruppi religiosi protestino contro un verso della canzone ritenuto ateo o blasfemo, allorché recita «Imagine there’s no heaven» (immagina che non vi sia un paradiso). Ma al di là delle solite rimostranze degli integralisti cristiani a stelle-e-strisce – forse gli stessi che sei anni prima organizzarono roghi di album dei Fab Four dopo che John in un’intervista affermò che in quel momento i Beatles erano forse più famosi di Gesù Cristo – la canzone, grazie al testo, o meglio a una lettura per molti versi edulcorata o sviante di alcuni passi diventa subito emblema di «music, love & peace» dall’allora recente memoria woodstockiana, per tutti i decenni a seguire, fino a diventare un simbolo quasi inoffensivo o qualunquista di giovanilismo più o meno utopico.

ALTRE INTENZIONI
Non sono queste però le intenzioni di un Lennon all’epoca doppiamente impegnato: dapprima, in ambito artistico multimediale, con musiche e film sperimentali, in seguito, su base politica, contro l’establishment: dal bed-in ad Amsterdam ai manifesti affissi nelle principali metropoli, dai concerti per liberare l’attivista e poeta John Sinclair (condannato nel Michigan a dieci anni per due spinelli) alla messa all’asta di barba e capelli onde finanziare il Black Panthers Party. Lennon insomma, tra il 1969 e il 1970, compie una svolta radicale verso l’estrema sinistra – di cui saranno testimoni canzoni quali Power to the People, Give Peace a Chance, John Sinclair e soprattutto Working Class Hero, forse il migliore in chiave ideologica, non a caso lato B di Imagine nella ristampa del 1975 – confermando pubblicamente che i contenuti letterari sono più vicini al marxiano Manifesto del Partito comunista che a un inno alla pace, intendendo dire che Imagine vuole prefigurare una società laica dove cessino assurdi disvalori come materialismo, utilitarismo, edonismo; in un’intervista a posteriori aggiunge pure che Imagine «era anti-religioso, anti-nazionalista, anti-convenzionale e anti-capitalista, e viene accettato solo perché è coperto di zucchero» riferendo la «dolcezza» forse al sound e al video d’accompagnamento.
Anche per la compagna di John, nonché musa ispiratrice, Yoko Ono, il messaggio (universalista) della canzone è evidente, rappresentando «solo quello in cui John credeva: che siamo tutti un paese solo, un mondo, un popolo». Il significato del testo, fin da subito, è soggetto di molte interpretazioni, ma resta ovviamente il diretto interessato a fornire le corrette glosse, iniziando dalla genesi letteraria, dovuta a due libri diversissimi fra loro, ma complementari, nonché curiosamente usciti nello stesso anno, il lontano 1964: da un lato c’è Vivendo cantando (In His Own Write in originale), raccolta di filastrocche, novelle, aforismi, disegni che mostra la sciolta vena affabulatoria dal taglio surreale che di lì a poco svilupperà in numerosi testi beatlesiani (I’m the Walrus, Lucy in the Sky with Diamonds eccetera) e che gli consentirà azzardati accostamenti lessicali tra le righe della stessa Imagine (su tutti «you may say I’m a dreamer/But I’m not the only one» «Puoi dire che sono un sognatore, ma non sono l’unico»). Dall’altro Grapefruit. Istruzioni per l’arte e per la vita di Yoko Ono è un testo composito di raffinata neoavanguardia tra immagini e poesie: dalla lirica Cloud Piece un verso è riportato sul retro di copertina dell’album Imagine – «Immagina le nuvole gocciolanti, scava un buco nel tuo giardino per raccoglierle» – a ispirare sia l’incipit sia indirettamente il messaggio letterario di Imagine.
Tuttavia in un’intervista del dicembre 1980 a David Fricke per il mensile Playboy, Lennon ritratta in parte la visione ateista della canzone, sostenendo addirittura che l’idea per Imagine gli giunga dopo la lettura di un regalo: si tratta di un volume di gospel e spiritual, donato dall’attore afroamericano Dick Gregory (noto per le lotte sui diritti civili) a John e Yoko, da cui egli trae il concetto di preghiera positiva: «Se puoi ‘immaginare’ un mondo in pace, senza discriminazioni dettate dalla religione – non senza religione, ma senza quell’atteggiamento ‘il mio dio è più grande del tuo dio’, allora può avverarsi». Lennon comunque respinge ogni lusinga su eventuali manipolazioni del proprio testo, ricordando un episodio clamoroso: «Una volta il consiglio ecumenico delle chiese mi chiamò e mi chiese: ‘Possiamo usare il testo di Imagine e cambiarlo semplicemente in Imagine one religion al posto di no religion?’. Ciò mi dimostrò che non lo capivano affatto. La modifica avrebbe affossato l’intero scopo della canzone, l’intera idea».

SOCIALISMO GENTILE
Incalzato dalle domande su Imagine anche all’epoca del ritorno discografico con Double Fantasy (1980), poco prima di essere ucciso, John si esprime anche per metafora: «Prima di tutto bisogna pensare a volare, poi si vola. Concepire l’idea è la prima mossa». Quest’ultimo atteggiamento sognatore forse porta oggi a considerare Imagine un perfetto compromesso fra arte e industria, come già, nel 1971, prevede il geniale produttore Phil Spector, a registrazione ultimata, assieme a Klaus Voorman (basso), Alan White (batteria) e The Flux Fiddlers (archi sovraincisi): «Sapevamo cosa stavamo per fare… John avrebbe fatto una dichiarazione politica forte, ma anche molto commerciale allo stesso tempo…».
Del resto Lennon è anche sincero quando, a proposito del marxismo insito in alcuni versi, tende a precisare che «(…) io non sono propriamente un comunista e non appartengo a nessun movimento politico». La visione del mondo dell’ex Beatles in quegli anni è più anarcoide «classica» – iniziata forse con la battuta rivolta alla regina madre a proposito dei vistosi gioielli indossati a un concerto dei liverpooliani – o magari influenzata dalla corrente situazionista che in arte si traduce con il neodada del gruppo apolide Fluxus a cui Yoko Ono aderisce fin dai primi anni Sessanta: estremisti ma avversi tanto al capitale americano, quanto al socialismo reale, da cui, come un figlio del ’68, Lennon prende le distanze: «Non esiste un vero stato comunista al mondo; bisogna capirlo. Il socialismo del quale parlo io… non è quello messo in atto da qualche sciocco russo, o cinese». La soluzione? Chic e stravagante, onirico e appunto immaginifico al tempo stesso: «(…) noi, invece, dovremmo avere un socialismo gentile… Socialismo britannico».