«La letteratura è una mancanza perennemente rinnovata dalle parole; è desiderio di altro ancora, perché quello che c’è sulla pagina non basta, non può essere tutto. Una scrittura sarà tanto più letteraria quanto più intenso saprà indurre quel desiderio». È la tesi di Nicola Gardini, docente di letteratura italiana e comparata a Oxford, che nel suo ultimo libro si dedica a un termine – che corrisponde anche al titolo – capace di sostanziare la mancanza: Lacuna. Saggio sul non detto (Einaudi, pp. 271, euro 20).

Lacuna, dice Gardini, richiama semanticamente il significato latino di lacus e in italiano il termine laguna. Se considerassimo dunque la lacuna come una «depressione in cui si raccoglie l’acqua», intenderemmo ciò che descrive Virgilio quando, nelle Georgiche, accenna a cavae lacunae, cioè un luogo – delle fosse – da cui l’acqua dei fiumi straripati evapora. A prescindere dalla più generale depressione geografica, il termine lacuna sembra comparire nelle principali lingue europee e sta a indicare, nel suo senso ampio, qualcosa che manca, qualcosa di necessario che non si dà. Se per ogni campo del sapere, o potremmo dire meglio per ogni gioco linguistico, il termine risente di una speciale declinazione (per la medicina, la lacuna è uno spazio di interruzione e mancanza, di dimensioni piccole o grandi che va dal sistema lacunare della cornea alla mnemonica), per la filologia – da cui Gardini sostanzialmente prende le mosse – la parola corrisponde a un’assenza nel testo, seguendo tuttavia una precisa direzione letteraria che gli consenta di concentrarsi sull’omissione intenzionale di parti del racconto.

In letteratura la lacuna può essere riscontrata in una narrazione ed è un punto preciso che segna e attiva lo stesso procedimento letterario. In questo senso, il non detto è l’omissione, ciò che determina riduzioni, abolizioni, cancellazioni, spasmi, eliminazioni, strappi del testo – e quindi della scrittura – attraverso cui evincere che «si narra non solo dicendo».

La ricerca di Nicola Gardini esclude alcuni tipi di omissione: per esempio quelle imposte come la censura, o l’incompiuto, le amputazioni, le sparizioni o i guasti meccanici e tutte le altre manifestazioni secondo cui non si è stati liberi di decidere bensì sono state circostanze esterne a dettare più o meno forzatamente l’essere mancanti. Non vengono analizzate le scritture diaristiche, né quelle poetiche, né ancora si discetta di accezioni lacaniane o sacrali (nonostante di tutte queste forme sarebbe utile continuare a parlare in relazione all’omissione e lo stesso autore auspica che ciò accada – così come per altre tradizioni).

Andare direttamente ai testi, stringendo all’osso la letteratura secondaria e quindi inchiodando il più possibile il fuoco della faccenda, autorizza Gardini all’individuazione di ottimi maestri di lacunosità; tra i tanti vi sono Proust, Flaubert e Henry James. Insieme a moltissimi esempi di lacuna – annunciata come nel caso dell’apertura del canto XXI dell’Inferno dantesco, o semplicemente agita come nella mancata descrizione dell’amore tra Vronskij e Anna Karenina nel decimo capitolo del romanzo di Tolstoj o nell’elisione della morte della signora Ramsay di Gita al faro di Woolf. E poi Manzoni, Thomas Mann, Stendhal, Nietzsche, Calvino, Yourcenar, altre e altri.
Reticenze e occultamenti sono infatti insufficienti a misurarsi con l’intelligenza dei testi, per questa ragione l’autore affonda la sua sapienza analitica su alcuni elementi che ci interpellano: intanto esistono diverse specie di omissioni che necessitano di altrettante speculazioni, riflessioni perché la lacuna «sta al testo come l’ombra al corpo». E proprio di una doppia materialità ci parla l’autore, ovvero dell’intenzionalità di chi scrive e dell’intenzione che restituisce il testo. A ben guardare ve ne è anche una terza che emerge dall’incontro con colui o colei che legge.

In questo gioco di vuoti e di pieni, la lacuna diventa un’arte, «ovvero un procedimento conscio o calcolato: un non dire al fine di dire». Se esso contribuisce alla rappresentazione essendo essenziale alla forma come al significato, il volume sceglie di distillare un’estetica dell’omissione sorvegliando quando, come e perché abbia definito uno sviluppo della letteratura per provare a ridefinire la fisionomia controversa e multiforme del concetto di realismo.
Per spiegare cosa sia il realismo, l’autore si colloca inizialmente accanto a Lukàcs e ad Auerbach mostrando maggiori debiti con quest’ultimo seppure verso il primo la corrispondenza sia ascrivibile alla «capacità educativa» della letteratura, rintracciata come traguardo della coscienza europea. La realtà di cui si parla non è proporzionata alla sua verificabilità, quanto piuttosto alla sua capacità di essere completata da chi legge. L’attitudine al domandare, all’immaginare da parte di chi legge sorgono dinanzi a narrazioni che lasciano aperta una breccia, uno spazio – anche piccolo, come interstizio di accoglienza.

Il senso, ricontrattato ermeneuticamente, si va costruendo nello stesso procedimento conoscitivo che è la letteratura. Ecco perché la lacunosità transita nell’impianto teorico di Gardini da idea a metodo. Che un saggio sul non detto custodisca una seduzione straordinaria è innegabile.

Un fascino che non è solo scandito dall’aver saputo coniugare la mancanza alla disciplina delle fonti, bensì da ciò che viene a riconfigurarsi seguendo questo verso esatto, ovvero che «riconoscere il valore dell’omissione significa rimettere la parzialità della scrittura nella totalità del mondo. Significa cercare il senso».
E alla fine della lettura, questa lacuna che apre all’agire e risulta essere una scoperta di libertà così sontuosamente abitata viene il desiderio di ricominciare a interrogarla.