La vita di Duras come cerchio stregato di solitudine e scrittura, sigillato nell’ossessività concentrica del tempo che lo governa e irriducibile in fondo ad ogni analisi critica, ha trovato la sua migliore interprete in un’altra scrittrice, Sandra Petrignani, che a questo ha dedicato il romanzo Marguerite, appena uscito presso Neri Pozza.

In che modo Marguerite Duras è divenuta un tuo personaggio?

Ho sempre letto cercando nei libri il rapporto intimo con l’autore. Non mi interessano gli scrittori di trame, ma quelli che lavorano con l’inconscio, che lo esprimono attraverso lo stile e l’immagine: in questo senso il rapporto con la biografia di un autore è sempre stato per me naturale. Nella lettura di un libro si entra in rapporto con un tipo psicologico, con un carattere, si entra in profonda sintonia con un autore. La mia famiglia, penso talvolta, sono gli scrittori che amo. Mi chiedono se la mia Marguerite è davvero Duras… altri l’avrebbero raccontata diversamente; c’è sempre un’appropriazione indebita, forse, quando si usano le vite vere. Giorgio Manganelli sosteneva che della biografia di chi scrive non deve importarci nulla; in realtà, se si legge la sua di biografia, l’opera di Manganelli si percepisce diversamente: in modo più carnale e commovente.

Che rapporto c’è tra scrittura e vissuto, in Duras?

Duras ingaggia un corpo a corpo con la propria autobiografia in tutta l’opera. Nell’assenza della persona e nella presenza della scrittura c’è l’io dello scrittore, e c’è l’invenzione dell’altro. L’amore, in Duras, per esempio, è invenzione dell’altro: che è poi la verità profonda dell’innamorarsi. L’invenzione dell’altro, il gioco tra assenza e scrittura è per me la chiave per capire Duras, ed è il modo in cui io l’ho reinventata. Quando scrivo mi servo spesso di destini «preconfezionati», che mi sollevano dal problema d’inventare una trama. Nelle Navigazioni di Circe, il mio romanzo d’esordio (Theoria, 1987), il personaggio principale non ha un destino bell’e fatto, ma è un mito in cui si condensa il percorso storico del mio personale femminismo, e del femminismo di quegli anni, dalla furia del consumismo sentimentale alla scrittura. Anche in Vecchi (Theoria,1994), uso destini già dati – vecchi veri, che ho incontrato per strada o nelle case di riposo. E nella Scrittrice abita qui (Neri Pozza, 2012), naturalmente, dove si muovono Karen Blixen e Virginia Woolf, Yourcenar come Deledda.

Qual è stato il tuo corpo a corpo con la sua scrittura e temporalità?

C’è stato un momento, all’inizio, in cui involontariamente riproducevo la musica del suo stile, spezzature che erano un’eco della sua scrittura; poi me ne sono difesa. È come con la poesia: rischi di più quando ti lasci guidare dall’inconscio. Questo è anche il fascino delle opere di Duras: non puoi seguire un suo film se non ti abbandoni al flusso del linguaggio, a ciò che lei sa scatenare nell’inconscio dello spettatore. Personalmente ho elaborato una forte sensibilità per il tempo interno attraverso la psicoanalisi, ma anche, semplicemente, attraverso il mio rapporto con la realtà, che non è di tipo razionale. Ho sentito in Duras – e forse ho anche attribuito a Duras – la mia richiesta spropositata di amore verso la madre, la sovrapposizione tra amore passionale e amore fraterno, e soprattutto la consapevolezza totale della fine delle cose, tema molto poco di moda: oggi viviamo in un bozzolo consolatorio e superficialmente dimentico delle cose ultime. In qualunque momento, anche nel momento della felicità, invece, Duras sa sempre che la verità della vita sta nella sua fine. L’orrore della natura in India Song, nella Malattia della morte e in tutta la sua opera è questo.

Possiamo dire che il percorso che va da Duras a Petrignani è quello che va dalla Malattia della morte alla verità della morte?

Forse sì. Comunque suona bene!