Chen Yongzhou è un giornalista del magazine di Canton, il New Express. Nel corso dell’anno ha pubblicato vari reportage riguardo la Zoomlion, una potente aziende di stato, leader nei macchinari per le costruzioni. Nell’ambito della sua inchiesta, Chen aveva finito per accusare l’azienda di stato di frode fiscale, riscontrando alcune fatture gonfiate. Una pratica piuttosto comune per i colossi statali cinesi, ambiti nei quali si annidano corruzione e potere dei funzionari più in alto nella nomenklatura del Partito.

Le autorità – a seguito delle sue «inchieste» – hanno arrestato Chen Yongzhou, per «diffamazione». Il caso del reporter arrestato è esploso a livello nazionale e internazionale, proprio sulle pagine della sua rivista, che ha solidarizzato con il giornalista, titolando a piena pagina, «Per favore, liberatelo». Altri media del Guangdong, la regione meridionale cinese, hanno espresso solidarietà al giornale e al reporter, mentre addirittura la «All China Journalists Association» – appoggiata dal governo centrale – aveva chiesto ai media di Stato e al Ministero della Pubblica Sicurezza di garantire Chen e trattare la questione in modo equo.

E proprio mentre si stava per sviluppare un dibattito sul giornalismo in Cina, il Partito Comunista ha messo a segno il suo colpo ad effetto, attraverso una pratica che comincia ad essere comune. Chen è apparso in televisione, in manette e con la divisa da carcerato e ha ammesso di aver ricevuto soldi per scrivere i suoi articoli diffamatori. Una pubblica confessione – che ricorda tanto i metodi della Rivoluzione Culturale adottata alla nuova realtà cinese – e che sta diventando una costante nel modus operandi del Partito (come Chen altri arrestati hanno confessato i propri crimini in televisione). Il New Express è così dovuto tornare sui suoi passi, chiedendo scusa ai lettori per i reportage del giornalista, scrivendo in prima pagina che «secondo l’indagine preliminare della polizia, il nostro giornalista Chen Yongzhou avrebbe accettato soldi per pubblicare un gran numero di falsi articoli, violando gravemente il principio di verifica».

Risultato attuale della vicenda: Chen verrà condannato, il giornalismo d’inchiesta cinese ha subito un altro colpo fatale da parte del PCC e il direttore del New Express è stato licenziato, sostituito da un membro della commissione del Partito Comunista di un altro quotidiano locale. Sconfitta su tutti i fronti, anche perché la vicenda non ha sollevato sentimenti di solidarietà tra il pubblico cinese e ha finito per rimettere in discussione il ruolo del giornalismo nel paese.

Se infatti si può considerare scontato che la «confessione» di Chen sia stata estorta o ottenuta con la promessa di una pena lieve o quanto può offrire in questi casi il Partito Comunista, il ruolo del giornalismo in Cina è tutt’altro che apprezzato e considerato rilevante dalla popolazione locale.

«Io ho il mio sistema di valori da cui non transigo, faccio il lavoro di giornalista da tanti anni, ma non ho mai scritto nulla in cambio di denaro. Mi hanno offerto anche cinquantamila yuan, tutte banconote impacchettate e avvolte in una busta di plastica. Ho rifiutato e deve essere sembrato molto eccentrico».
Così raccontava Wang Xiaofeng, giornalista e scrittore cinese, durante un’intervista in cui si arrivò a toccare il tema del giornalismo in Cina.

Per i cinesi il ruolo del giornalista, infatti, non rappresenta come nella nostra cultura, un tentativo di controllare il potere e la possibilità di consentire al pubblico di farsi un’idea propria sui fatti; in Cina il giornalista è solitamente visto come un pupazzo del potere costituito, oppure come un corrotto. Questo accade perché l’informazione è controllata dal Partito Comunista in ogni suo aspetto e al giornalista non rimane che provare ad arrotondare sfruttando la posizione sociale che la propaganda gli concede.

Un classico dei giornalisti cinesi è quello di richiedere una hong bao (la tradizionale busta rossa usata nel capodanno cinese per regalare denaro) contenente soldi, per partecipare alle conferenze stampa e garantire infine che possa essere realizzato un articolo al riguardo. I giornalisti televisivi, racconta una persona che lavora come ufficio stampa di un’agenzia di comunicazione, «chiedono soldi per loro, per la troupe e anche un regalo». Più è potente il network, più si chiedono soldi.

E’ un mondo bizzarro e strambo quello del giornalismo cinese: durante i giorni che seguirono la fuga dai Wang Lijun, il braccio destro di Bo Xilai, al consolato di Chengdu (evento che diede il via al più clamoroso scandalo politico cinese degli ultimi trent’anni), un’amica giornalista, impiegata in una delle riviste economiche più conosciute del paese, mi chiamava per capire cosa stesse succedendo. «E’ un disastro, mi diceva, noi non possiamo accedere ad alcuna informazione al riguardo».

Da un lato dunque la difficoltà – per chi lo vorrebbe – di fare realmente il proprio mestiere, dall’altro una tendenza a cascare nella trappola della busta rossa; non che manchino casi di giornalismo investigativo, come dimostrano alcune riviste e quotidiani che hanno saputo tirare fuori scoop o inchieste anche «scomode», ma in generale il ferreo controllo del Pcc, presente in ogni redazione con un proprio esponente lascia poco spazio a quanto può risultare «scomodo» al potere costituito.