Ha vinto The Square del regista svedese Ruben Östlund (Force majeure) ma il film che meglio riassume questa edizione dei 70 anni del festival di Cannes è Le Redoutable, la caricatura di Godard, del Maggio sessantotto e del cinema «politico» non mediamente in equilibrio né sintonizzato con l’algoritmo del presente che ne decreta la «bellezza» firmata dall’Oscar francese Michel Hazanavicius. E non perché è un film più che modesto (colpevolmente non ne abbiamo parlato, non c’era molto da dire e poi ci sarà occasione quando uscirà in Italia distribuito da Cinema) come modesto è stato definito da più parti il concorso (3.2 è stata la media più alta tra i voti espressi dai critici internazionali nella classifica pubblicata su «Screen International») ma perché nell’intenzione di sfigurare il suo soggetto utilizza esplicitamente modalità e argomenti che erano alla base di molti film in gara.

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Per carità, non che non si possa criticare un maestro o farne un ritratto pungente o interrogarsi «a distanza» su un momento storico che ha segnato un «turning point» nella nostra Storia (lo ha fatto con intelligente acutezza nel suo No intenso agora Joao Moreira Salles). Non si capisce però per quale motivo tale operazione debba caricarsi di un malinteso senso del grottesco che è solo volgarità, utile ad ammiccare alla risata facile, alla strizzata d’occhio che cerca di compiacere «quello che va», il gusto «popolare» che nel film viene esaltato contro i tormenti del regista deciso a abbandonare per sempre (fino a disconoscerlo) quanto fatto fino allora – siamo nel periodo di La Cinese (1967), il film si ispira al libro di Anne Wiazemsky che Godard sposò, «troppo giovane e troppo borghese» dice la sua voce fuori campo nelle prime inquadrature, e alla loro storia d’amore.

Quindi Godard (Louis Garrel) ha la zeppola perché «fa ridere», è un povero idiota che quando prende la parola nelle assemblee studentesche viene puntualmente fischiato, gli cadono sempre gli occhiali e ogni volta – mal digerito meccanismo della gag – qualcuno ci passa sopra facendoli a pezzi. Come si dice al supermercato «due al prezzo di uno», Godard e un’idea del cinema pensato per destrutturare l’esistente. Un cinema politico, di «realtà» a partire dalla sua messinscena, la quale non accarezza con conforto le aspettative dominanti ma ne rivela il lato scomodo. Dolcemente, senza bisogno di gesti eclatanti come nei film visti questi giorni, incapaci di amore, chiusi in un racconto del nostro tempo, ovviamente drammatico, sotto forma di un gioco al massacro che non risparmia nessuno compresi gli spettatori.

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«Niente è più violento della realtà» ha detto Monica Bellucci, madrina della serata, nel corso della premiazione. Già. Però il film di Polanski, D’apres une histoire vrai – come recita provocatoriamente il titolo, «Da una storia vera» – ci dice (godardianamente) che solo la distanza della narrazione permette una «verità».

I film più visti, quelli che piacciono alle giurie o ai festivalieri vanno invece in senso opposto. Metafore raggelate nel narcisismo di sé, nella preoccupazione di «rivelare» l’anima nera della realtà vi si immergono accarezzandone le pulsioni più reazionarie, le frustrazioni, i sentimenti populisti, il conservatorismo appena mascherato. Esibiscono sfacciatamente la propria crudeltà, l’odio verso i personaggi che rendono «mostruosi» o ai quali riservano terribili sofferenze: ma perché segni del mondo attuale o espressione di un desiderio che trasforma l’immaginario nell’ennesimo strumento di controllo?

A quell’idea nel Palmares, è sfuggita forse solo l’elegante, asciutta, rilettura che Sofia Coppola (miglior regia) ha fatto di The Beguiled, il suo un film tutto di sottrazioni rispetto al tour de force di Eastwood/Siegel, in cui le vergini, invece di suicidarsi, diventano omicide, senza pianificare o pensarci troppo, quasi con la stessa leggerezza delle ladre di Bling Ring. E i 120 battiti di Robert Campillo, a cui ha dato il Gran Premio, filmato in stato d’urgenza, come quello che vivono i personaggi, nella Francia di Mitterand, inizio anni ’90 che volta la testa davanti all’Aids.

Insostenibile per questa giuria, così preoccupata del «cinema importante» anche la magnifica leggerezza dei Safdie – il cui film, gli sarà sembrato offensivo fino dal titolo, Good Time: perché in quegli inferi newyorksi, che i fratelli ci raccontano con euforia, affetto, humor e sublime energia cinema, non è dato di divertirsi. Solo patire. Eppure un premio a loro avrebbe fatto bene al festival. Come anche, invece del film più ingessato e overprodotto che Noah Baumbach abbia mai fatto, in concorso sarebbe stata bene la Florida impoverita di Sean Baker.

Ma no. Meglio celebrare la vendetta, e l’esaltazione punitiva col l premio alla sceneggiatura a The Killing of a Sacred Deer del greco Yorgos Lanthimos, e a You Were Never Really Here della regista scozzese Linney Ramsay – e certo siamo felici del riconoscimento a un attore sublime come Joaquin Phoenix, protagonista del film di Ramsay, anche se, guarda caso, non sarebbe mai stato per l’irriverenza del suo personaggio nel molto bistrattato capolavoro di P.T. Anderson Vizio di forma. Così Diane Kruger vincela palma per la migliore attrice per il suo ruolo da euro-kamikaze, seppure contro neonazisti protetti dai tribunali che le hanno ammazzato figlio e marito (turco) nella coproduzione tedesco-francese In the fade di Fatih Akim.

Se questa è la «linea» dritta, drittissima dell’immaginario europeo celebrato a Cannes c’è da essere preoccupati. E la palma, The Square (in Italia lo distribuirà Teodora) di questa attitudine rappresenta l’esaltazione. Al centro c’è il conservatore di un museo di arte contemporanea a Stoccolma, tutti lo reputano uno molto illuminato ma le circostanze (il furto del portafoglio) ne rivelano progressivamente la grettezza, che è quella di una certa classe intellettuale progressista solo nella facciata.

Oslund costruisce la sua «metafora» con una serie di quadretti dall’umorismo ghiacciato, fino all’orribile cena finale in cui un artista si spoglia nel mezzo di una cena di gala mimando un gorilla. Si direbbe il sogno realizzato della destra sui «benpensanti». La presa in giro dell’arte contemporanea e di chi la frequenta e la necessità di opporre qualcosa di «popolare» all’espressione della Casta. Il fatto è che Oslund è anche molto «artie» perciò astutamente bifido, calato in quel tono post-umano che tanto piace a critici e programmer. E ritorniamo alle conversazioni in Le Redoutable dove al Garrel/Godard che si interroga sul rapporto tra le immagini e ciò che si vive tutti rispondono che al cinema si va per divertirsi, per svagarsi. Meglio se poi lo svago ammicca al senso comune.