C’era una volta il Piemonte… Cowboy Makedonsky è un film del regista torinese Fabio Ferrero che racconta un tempo in cui le terre piemontesi dei grandi vini, erano il selvaggio west dove fare fortuna.

Un film da vedere per capire da dove arriviamo e dove siamo giunti nel mirabolante mondo del vino diventato motore di un’economia vasta e sostenibile. Oggi, dove ordinati plotoni di Ferrari scorrazzano tra ristornati stellati e cascine trasformate in lussuosi bed and breakfast gestiti da danarosi tedeschi, un tempo era la frontiera dove l’oro cresceva tra i vigneti: il far west era solo ieri.

Quando i macedoni come Goran – il protagonista, il cowboy macedone di Ferrero – arrivavano a frotte, in fuga dalla dissoluzione violenta della ex Jugoslavia e con le mani che avevano appena posato un fucile, gli imprenditori agricoli di queste terre cominciavano a punteggiare il ricamo di viti che oggi ricopre l’orizzonte di queste colline. Dove finisca il passato selvaggio del film di Ferrero e dove inizi un nuovo mondo fatto di integrazione, diritti, lavoro e dignità non è chiaro.

Le colline di Langa-Roero e Monferrato accolgono oggi una comunità di diecimila macedoni, molti dei quali integrati con un modello fondato sul principio «lavoro e basta», non solo in vigna: se, ad esempio, vuoi mangiare piatti tipicamente macedoni la difficoltà è data dalla scelta nell’offerta. I macedoni lavorano e basta: se questa è una leggenda la realtà è molto poco diversa.
Una chiave di volta che ha cambiato le condizioni di vita di una comunità ha una data: il 25 giugno del 2015 Giancarlo Gariglio, giornalista di Slowine, testata afferente a Slow Food, pubblica una dura inchiesta sul lavoro della comunità macedone in Langa-Roero e Monferrato. L’inchiesta ha la potenza di un mattone gettato in un vetrina. Gariglio descrive nel dettaglio l’assoluta necessità della manodopera macedone – «se non ci fosse sarebbe peggio della grandine. Un’apocalisse».

Cowboy makedonsky è la storia di un modello primordiale, fondato su tanti piccoli taccuini su cui venivano segnate le ore del cottimo. Un mondo basato sulla forza, nonché sul principio che tanto, a casa, in qualsiasi casa del mondo, sia esso est europeo o africano, il lavoro non c’è.

Quell’inchiesta fatidica fu seguita da altre, sulla stampa locale, che alzarono ulteriormente il tiro: funse da goccia che fece traboccare un vaso stracolmo e si giunse alla Legge 199 del 2016 che, oltre a rendere più semplice gli accertamenti e più dure le pene per i caporali, introduceva anche la responsabilità del datore di lavoro, l’arresto in flagranza di reato nonché il sequestro di alcuni beni in taluni casi.

Paolo Capra, segretario generale della Flai Cgil di Asti ricostruisce il quadro: «Corrisponde a verità che l’incidenza del fenomeno conosciuto come caporalato in Langa, Monferrato e Roero, sia stato fortemente colpito. Questo in virtù non solo della legge nazionale, ma sopratutto delle nostre continue denunce e iniziative sul territorio. Che peraltro, hanno anche portato alla Legge regionale 12/2016, volta a creare una relazione tra la dignità sul posto di lavoro e fuori, dato che affronta l’annoso problema dello sfruttamento attraverso costi vessatori di semplici posti letto».

Legge, sanzioni, responsabilità dei committenti: ma non solo. Il far west dei cowboy viene trasformato in posto meno selvaggio nel momento del riconoscimento dell’Unesco di «patrimonio dell’umanità» a Langhe-Roero e Monferrato, nel 2014. Questo passo storico dà piena spinta al settore turistico, ovvero quando inchieste e iniziative sindacali mettono in luce una situazione potenzialmente pericolosa sul piano del marketing del territorio.

Si compone quindi una nuova realtà nelle preziose vigne del territorio, crinali di colline che possono raggiunge il valore del milione di euro ad ettaro ed anche più. Nel presente così lontano ci porta Claudio Rosso, enologo di Langa che ha trasformato la sua passione in un’impresa vitivinicola. Lui ha il compito di mettere il volto sul «nuovo» corso del vino in Langa-Roero e Monferrato. Già attivista ecologista, ci porta nella sua vigna poco sopra Dogliani, in località Clavesana. Qui ad attenderci, con gli stivali sporchi di fango e le cesoie da vite in mano c’è Jovico Boskowskji, anni cinquantacinque.

«Gli anni selvaggi furono quelli dove arrivai io, dopo la disintegrazione della Jugoslavia. Allora era veramente un casino, eravamo clandestini e schiavi, passavamo da un caporale all’altro, senza mai uscire di casa. Sono tornato a casa dopo tre anni passati a lavorare e basta: dimagrito di trenta chili, mia madre quando mi vide si mise a piangere. Non posso dimenticare quel momento. Nel tempo la situazione è migliorata: oggi anche per chi arriva da Delcevo con il pullman di linea per lavorare qualche tempo – esiste un linea Delcevo, Macedonia, Canelli, che fa collegamenti settimanali – non trova quello vissi io. E’ un mondo completamento diverso, dove magari un po’ di sfruttamento c’è ancora in alcune zone, ma che va ad estinguersi».
Lui sa tutto sulla vigna e la sua vita, ha imparato tutto, e fa tutto. E così i suoi colleghi. Quando potare, come incidere sul ramo, come fermare la peronospera e con quali «mezzi», quando vendemmiare: un sapere antico e moderno che ha fatto suo.
Rosso commenta: «Esiste ancora lo sfruttamento? Magari sì, ma ora sarebbe, per chi lo praticasse, un rischio per se stesso e per tutti. La regolarizzazione è sempre stata l’unica via possibile, il lavoro dignitoso risolve tanti problemi, non ultimo quello dell’integrazione».

Così nel mondo che si affranca da pratiche che parevano insuperabili, grazie ad una combinazione di fattori che combinano la volontà e la fortuità, si prospetta una nuova sfida. In arrivo dal saluzzese, terra di frutta, e da Torino, terra di disoccupazione selvaggia, si affacciano i primi lavoratori africani. Non è un fenomeno esclusivo delle vigne di Langa-Roero e Monferrato, per altro. In alcune zone del Canavese, Ivrea, da tempo nei paesi cominciano ad aggirarsi migranti che raccontano di salari giornalieri che girano intorno a venti-venticinque euro per otto ore di lavoro: rigorosamente in nero.

Paolo Capra racconta la realtà dell’astigiano: «Stiamo portando avanti con i produttori, e non senza fatica, alcuni progetti pilota che portano i migranti africani presenti negli Sprar nelle vigne: senegalesi, congolesi, maliani in particolare. Ma il problema ora è politico: perché con il decreto sicurezza di Salvini (ancora in vigore) gli Sprar saltano e crolla un anello che collega il migrante con il lavoro. L’idea secondo cui gli uomini verrebbero selezionati nei loro paesi di origine non sta in piedi».