Francisco Toledo è stato uno dei più grandi artisti messicani. La sua scomparsa, (il 5 settembre scorso), è avvenuta dopo una dura battaglia contro un tumore ai polmoni. Nato a Juchitán, nell’Istmo di Tehuantepec-Oaxaca, nel luglio del 1940 da genitori zapotechi, ha riversato nella sua produzione artistica quello che molti hanno definito «l’anima del Messico».
Le sue opere sono pregne di immagini che riportano al lussurioso contesto naturale dell’Istmo, ma anche alla sua ricchezza culturale e simbolica dove realtà e fantasia si confondono in metafore poetiche di una potenza visuale sorprendente: la realtà prorompente sublimata nel mito, nella magia. Toledo amava definirsi illustratore di miti, narratore visuale di tradizioni ancestrali, leggende e cosmovisione zapoteca, riti e miti preispanici. In questo profondamente zapoteco, visualmente zapoteco.
La forza del «fantastico reale» – come lo chiamava Baudelaire- insito nella sua opera ha affascinato e sedotto critici d’arte, scrittori e antropologi per l’originalità, l’erotismo, la ricchezza della rappresentazione mitologica. Nel corso della sua carriera d’artista ha sperimentato tecniche differenti, pittura, incisione, scultura, ceramica, fotografia, tessitura, sempre alla ricerca di nuovi linguaggi, rielaborati in modo personale e originale. Toledo era un extra-ordinario artista, ma non solo. È stato eccezionale promotore culturale e guida politica «laica», indispensabile mediatore di tanti conflitti sociopolitici oaxaqueñi.
Dal suo rientro definitivo in Messico nel 1965, dopo lunghe permanenze in Europa, la sua opera filantropica e il suo attivismo sociale sono stati incessanti e hanno portato alla realizzazione di numerosi spazi artistico-culturali soprattutto nella città di Oaxaca.
L’ultima volta, il nostro incontro è stato al Casa de San Agustín Etla (di cui era il fondatore), centro di riferimento internazionale per mostre, residenze artistiche e formazione, all’interno di un’ampia ricerca sull’arte indigena in Messico finanziata della Secretaría de Relaciones Exteriores messicana.

Che relazioni ha mantenuto nel tempo con la sua terra d’origine? Con la sua comunità?
Ho smesso di andarci trent’anni fa. C’era una situazione di eccessiva violenza quando partecipammo alla creazione della Casa della Cultura di Juchitán. Un giorno fummo picchiati, andammo via da lì e non ci tornai più. Fondammo la Casa della Cultura negli anni ’70 dello scorso secolo: io vivevo ancora a Juchitán. Costruimmo una biblioteca, uno spazio per esposizioni temporanee, una sala di archeologia e un cineclub.
Nello stesso periodo iniziò un movimento politico e a un certo punto cultura e politica coincisero e così iniziarono i problemi: innanzitutto quello delle persone scomparse. I famigliari, le madri soprattutto, venivano nella Casa della Cultura a chiedere giustizia, per scrivere lettere ai giornali. Iniziammo, attraverso la Casa della Cultura, a metterci in relazione con tutto ciò che succedeva politicamente. Per me fu una scoperta: i miei famigliari, da parte di mio padre, lasciarono il paese per via dell’ondata di violenza che c’era stata nel 1910. Prima che salisse al potere Francisco Madero ci fu un leader in Juchitán che era fratellastro di mia nonna. Mia nonna si sposò con i nemici del suo fratellastro e quindi dovettero andar via perché il conflitto fra le due famiglie generò molta violenza e si trasferirono a Ixtepec, che sta a mezz’ora da Juchitán.

Dopo iniziò un’epoca europea. Lei viaggiò in Italia, in Francia…
In realtà la mia epoca europea aveva già preso piede. Il mio primo viaggio nel Vecchio Continente fu negli anni ’60 del secolo scorso, stetti quattro anni senza tornare in Messico. Dopo andai e tornai diverse volte. Mi fermai altri tre anni all’estero, e alla fine degli anni ’80 tornai in Messico definitivamente, prima a Città del Messico, poi a Oaxaca. Iniziammo a pensare di creare un Istituto di arti grafiche a Oaxaca e ci riuscimmo. Sviluppammo molti altri progetti: il Museo di arte contemporanea di Oaxaca – Maco -, la biblioteca che si trova presso l’ex-convento di Santo Domingo, il Cineclub, il Centro Fotografico, e per ultimo il Casa, il Centro de Arte di San Agustin.

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Veniamo alla sua produzione artistica: che importanza riveste la sua origine messicana, oaxaqueña, dell’Istmo? E che influenza ha avuto tutta la sua formazione europea?
Come ho già detto, quando arrivai a Oaxaca l’informazione era quasi inesistente. C’era però una scuola di Belle arti con una piccola biblioteca che mi permise di vedere per la prima volta l’arte di muralisti come Orozco e Rivera. Ovviamente, mi influenzarono. Poi conobbi Tamayo e Picasso. Furono quelle le mie prime influenze artistiche. Trovai anche un catalogo di fotografia di don Manuel Álvarez Bravo. Era un campo che mi interessava molto, tanto che per un periodo pensai di poter diventare fotografo. Sfogliando il libro, scoprii che anche la fotografia poteva essere arte. Appresi qualcosa anche dal museo di archeologia. E dallo stesso museo di Arte popolare di Oaxaca dove erano allestiti dei pezzi straordinari, soprattutto per quel che riguardava le ceramiche.
A Città del Messico mi iscrissi poi al Centro superior de lasartes aplicadas con Guillermo Silva. Lì feci il tour degli edifici che dipinsero i muralisti: la Secretaría de Educación Pública, il Palacio de Bellas Artes, etc… Nel 1959 feci la mia prima mostra personale che andò molto bene. Vendetti le cose che dipingevo allora – un misto di Tamayo, con un poco di Mirò e Klee. Con il ricavato di questa prima mostra ebbi i soldi per poter viaggiare; a dire il vero fu il proprietario della Galleria che mi consigliò vivamente di viaggiare per «vedere il mondo» e fu proprio grazie a lui che ebbi l’idea di partire per l’Europa.
Con l’aiuto di mio padre andai prima a Roma. Rimasì lì qualche mese a studiare, poi mi trasferii a Venezia e, alla fine, a Parigi. Il proprietario della Galleria mi diede un pacchetto di lettere di presentazione destinato a persone che conosceva. Due di queste missive furono fondamentali affinché mi fermassi a Parigi: una era per Rufino Tamayo e l’altra per Octavio Paz. Entrambi vivevano in Francia. Delle altre lettere ricordo che ce n’era una destinata a una principessa – e la buttai subito; un’altra era per Peggy Guggenheim, che contattai a Venezia e andai a trovare a casa sua. Ero molto timido. E poi non sapevo nemmeno bene chi fosse Peggy Guggenheim. In verità, sì, lo sapevo. Ma la principessa non la contattai: di cosa si può parlare con una principessa?

Cosa pensa del Messico di oggi e delle sue dinamiche sociali?
Viviamo in un caos, in un disordine e in una violenza che, pur non essendo nuova (perché il Messico è un paese di soprusi da sempre anche per le politiche dello Stato nei confronti delle Comunità riguardo il problema dell’acqua e della terra) mai è stata così generalizzata e così forte. È molto preoccupante immaginare che tutto ciò che si è costruito finora, le istituzioni culturali, tutto ciò che è concepito a favore della vita, dell’ordine e dell’educazione possa crollare improvvisamente.
La cultura serve, però, sicuramente, non è una priorità. In particolar modo, in questo momento storico tutte le risorse per la cultura sono state spostate per risolvere i problemi di sicurezza. Le istituzioni lavorano meno. Hanno fatto dei tagli incredibili.

Ci sono molti artisti di origine indigena oggi in Messico. Lei pensa che il mondo dell’arte, delle gallerie discrimini gli artisti per la loro origine?
Non credo che ci sia questo tipo di discriminazione. Certo, esiste molta discriminazione in Messico per chiunque sia indigeno, che faccia l’artista o no. Il mio paese è pieno di razzismo. Comunque, in realtà, credo che un gallerista che noti in qualcuno un vero talento non stia a guardare il colore della pelle o l’origine dell’artista.