C’è un momento di crepuscolo, quasi sospeso nel tempo, durante l’Ottocento romano: quando nei primi decenni del secolo la città restò in bilico tra la ‘modernità’, che per pochi significativi anni l’aveva invasa con l’arrivo dei francesi, e ‘l’eternità’ della Chiesa, che dopo l’oltraggio subìto era decisa ad andare velocemente oltre, tornando indietro. Una Chiesa determinata a reimpossessarsi, letteralmente, del proprio tempo, abbandonando la bizzarra idea dei francesi di far iniziare il nuovo giorno in un momento perso nell’oscurità e tanto anonimo come la mezzanotte. A prevalere doveva piuttosto essere l’ora che per secoli aveva scandito la vita dei romani: quando il vecchio giorno finiva al tramonto, al rintocco delle campane, e il nuovo nasceva incerto e vacillante come un bambino in attesa di vedere la luce. Letta al momento del suo epilogo ottocentesco, la sfida su quale fosse la misurazione del tempo migliore da adottare, se quella regolata dagli orologi degli invasori o quella scandita dai vespri di chi alzava gli occhi al cielo verso il sole, non appare tutto sommato nulla di più di una contrapposizione tra scienza e fede.
Così, forse, al suo epilogo. A convincerci di come le cose fossero un po’ più complicate e sfumate nella stessa città qualche secolo prima ci ha pensato ora una mostra intitolata Tempo barocco, in corso a Palazzo Barberini, fino al 3 ottobre (catalogo Officina Libraria, euro 29,50). Nata da un’idea di Francesca Cappelletti, che l’ha curata insieme alla direttrice Flaminia Gennari Santori, l’esposizione è alloggiata in un’area nuova del museo, collocata al piano terra dell’imponente complesso palaziale romano, nell’ala sud dove si trova lo scalone elicoidale borrominiano. Composto di otto sale, questo spazio è stato ristrutturato rispettando sofisticati standard qualitativi (dal sistema con contropareti all’impianto per l’illuminazione e l’areazione) in modo da offrirsi d’ora in avanti come sede permanente, all’interno del museo, per accogliere mostre temporanee. In altri termini, si tratta di un importante tassello nel corso di un lungo processo pluridecennale di valorizzazione del Palazzo Barberini, che torna ora finalmente a essere percepibile in modo complessivo e luminoso nelle sue armoniose linee architettoniche e nell’elegante decorazione plastica delle sue superfici: un edificio che, nella mente dei suoi ambiziosi committenti, era stato costruito durante il pontificato di Urbano VIII Barberini (1623-’44) per competere con lo stesso Quirinale, se non addirittura con il Vaticano.
Allestita in questa sede, la mostra, pur proponendo una cornice cronologica grossomodo seicentesca, rivolge un’attenzione particolare a quanto fu realizzato a Roma nel corso del papato urbaniano, in una suggestiva eco con la vicenda decorativa stessa del palazzo. Con un approccio innovativo e puntando su una selezione di opere di assoluta qualità ed esposte con sapienza (a iniziare dal Ratto delle Sabine di Pietro da Cortona, perfettamente leggibile nella sua potenza coloristica e non solo compositiva), la mostra non impone un ordine cronologico o biografico alla visita, ma declina gli ambienti per temi, in modo da illustrare con un’articolazione culturale di piani l’idea di ‘tempo’ durante il ‘tempo barocco’. E l’idea che emerge, grazie anche a un’alternanza calibrata tra pittura, scultura e oggetti di arredo, è quella di un ‘tempo chiaroscurato’, che assorbe in sé scienza e passioni, che porta a sintesi (come suggerisce il bel saggio di Emilio Russo in catalogo) Giovan Battista Marino e Galileo Galilei, e che non fa coincidere la propria definizione con il conteggio uniforme dei minuti, ma con la poesia, l’allegoria, la mitologia, che si impongono anche sugli strumenti seicenteschi predisposti a scandirlo, questo tempo.
Disseminati nelle diverse sale, sono gli stessi orologi d’epoca a dimostrare la volontà barocca di esorcizzare un tempo sempre più deciso a oggettivarsi. Sono strumenti preziosissimi, di varie fogge e formati: da consolle, da tavolo, con automi, da persona con suoneria o notturni e silenziosi. Provenienti da tutta Europa, usano materiali durevoli quali il bronzo, la tartaruga, le pietre dure, perché devono sconfiggere il tempo. Presentano figure della Morte, per ammonire a impiegare bene il tempo che passa. Talvolta sono esotici, altre volte devozionali. Spesso, poi, mettono in scena il Tempo stesso: un vecchio barbuto seminudo con la falce, che ‘novello Atlante’ sorregge il quadrante di un marchingegno, oppure giace alla base di un orologio sopra il quale si libra trionfante Cupido.
Giovane, alato e insolente, Cupido è l’‘antieroe’ della mostra: in aperta sfida contro il Tempo, tanto da arrivare addirittura a mordergli le ali, assalendolo insieme con la Speranza e la Bellezza, nel meraviglioso quadro di Simon Vouet del Prado («Romae 1627»), esposto in mostra. Ed è proprio in una scena di perturbante vitalità come questa, che il Seicento mostra tutta la sua volontà di dare un’anima (mitologica e allegorica) al tempo, cercando un’oggettività condivisa, anche se non quantificabile: lo immagina berninianamente mentre svela la Verità, anche quando ha il volto sgraziato di Cristina di Svezia; lo effigia nel momento in cui, vinto dalla pietà, restituisce in eterno il ritratto di un estinto ai suoi cari nel marmo di una tomba; oppure lo immortala poussinianamente come Crono tra le Stagioni e le Ore, terribile divoratore dei propri figli.
D’altra parte, misurare il tempo non è, in età barocca, prerogativa solo degli orologi, ma anche, come suggerisce la mostra, della pittura. E, proprio da questo punto di vista, il ragionare per generi adottato dall’esposizione funziona bene, sia quando insiste sul valore allegorico di una tela come Le quattro età dell’uomo di Valentin de Boulogne, sia quando suggerisce di leggere in chiave simbolica le nature morte dell’epoca come silenziosi manifesti dell’insanabile conflitto tra ciò che è transeunte e ciò che è perenne; sia quando, infine, presenta l’ansia dei pittori seicenteschi di raffigurare l’azione e il movimento nelle loro opere come la volontà di ‘fermare l’attimo’ in una sfida lanciata proprio al tempo e al suo scorrere fugace e soggettivo. A ben guardare, del resto, diventato uniforme e misurabile alla fine del Settecento, il tempo (non più barocco) avrebbe smesso di incuriosire gli artisti (ormai) neoclassici, preoccupati piuttosto di trasmettere alle proprie pitture e sculture scintille posate di eternità.